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Come viveva la gente comune durante il medioevo?

Ultimo Aggiornamento: 13/04/2010 10:14
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27/11/2009 14:36

1à parte, a cura di L. Bianchi
MEDIOEVO - Come viveva la "piccola gente"di quel tempo? Un resoconto dal nostro inviato

STORIA MINIMA E STORIELLE

DEL "SECOLO BUIO". CON LAZZI, FRIZZI E MALIZIE

di LIONELLO BIANCHI

Come vivevano mille anni fa o attorno a quell'epoca? Parliamo della gente comune, non dei signori che alloggiavano nei loro palazzotti e castelli. Per scoprirlo, il vostro inviato nel tempo che fu, si è inserito in uno di quei borghi medievali sparsi per l'Italia e per l'Europa con l'ausilio di qualche buon libro, opera di studiosi dei costumi dell'evo di mezzo, da Piero Camporesi a Jacques Le Goff.

Girando per quelle stradicciole lastricate di pietre, sbirciando dentro le case attraverso le porte aperte o nelle botteghe, siamo in grado di ricostruire la vita di uomini e donne di quell'epoca che va appunto dall'Anno Mille fino ai secoli del Rinascimento.

Abbiamo scoperto che proprio in quei secoli cosiddetti bui sono nati le arti e i mestieri, di cui del resto si hanno riflessi nella grande letteratura, vedi per tutti il sommo Dante. C'era veramente di tutto in quei borghi, autentici microcosmi: in primis si scorgevano le botteghe dei sellai e dei fabbri. E poi gli artieri abili nel costruire materiali per i carri e le carrozze, bravi anche a ferrare i cavalli, che in quell'epoca e fino all'età pre-moderna erano il mezzo di trasporto per andare da un paese all'altro, da una regione all'altra. Ma c'erano anche gli inventori che venivano considerati veri e propri maghi, che davano al Medioevo quella patina di misterioso e insieme di meraviglioso, come sottolinea a ragione Jacque Le Goff in un suo libro dal titolo suggestivo "Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale", edito da Laterza, prima edizione 1990.

Appare evidente che la vita di borgo, dove tutti e ciascuno erano sotto controllo di tutti comportava necessariamente a una convivenza di massa, che accompagnava dalla nascita alla morte ogni componente della comunità. Ognuno diventava così figlio della comunità, membro di una grande tribù, come scriveva il cronista forlivese Leone Cobelli. Gli altri, i componenti di comunità poco distanti - pur essendo della medesima etnia - venivano considerati estranei, "forestieri" si diceva allora, "diversi". Del resto, da un borgo all'altro, anche lontano poche miglia, cambiavano spesso usi e costumi. La ricerca della privacy all'interno di un gruppo ovvero di un borgo era sempre più difficile, chi cercava di isolarsi era guardato quasi con sospetto, e veniva ritenuto sovente come un mago o una strega.
Avveniva pertanto che nei borghi, un po' come nei villaggi primitivi, lo sguardo collettivo inseguiva chiunque, nel privato e persino nei comportamenti e negli atteggiamenti sessuali. La nozione di privato era piuttosto vaga.

C'era il controllo sul sesso, anzi il controllo dell'efficienza sessuale rientrava nei rituali del vivere comunitario sui quali il vicinato aveva un ruolo di primo piano. Di conseguenza i singoli erano chiaramente condizionati negli atteggiamenti erotici o sessuali, ma anche e soprattutto nei comportamenti economici, religiosi e sociali. Vagolando per i viottoli di questi borghi, si è potuto rilevare che sovente non c'era una divisione tra interno ed esterno. Le case - come si possono vedere ancora in certi antichi villaggi o paesi dell'Italia centrale o meridionale ma anche in quelli dell'Italia settentrionale - erano legate tra loro, spesso non esistevano porte, ma una fila di corridoi che univano i vari edifici uno dentro l'altro, con gabinetti in comune nei cortili: i borghi medievali per la loro costruzione costituivano un continuum non scomponibile col metro dell'intimità quale siamo abituati oggigiorno.

Non c'era confine tra tuo e mio, la vita affettiva, lavorativa, l'ozio e il piacere si intrecciavano, il chiacchierare e il parlare si intersecavano coinvolgendo tutti quanti gli appartenenti alla comunità senza scampo. Scomparivano persino i nomi, i cognomi, ognuno veniva indicato dal soprannome, in genere dall'attività o dal mestiere che esercitava. Spesso i nomignoli avevano attinenza con una malformazione o un difetto fisico, noto a tutti. In un villaggio della Romagna occidentale (vedi. La miniera del mondo, di Piero Camporesi - Edizioni Il Saggiatore) c'era chi aveva per soprannome "Tot usel" (tuttouccello) ed era un iposessuale o un impotente. Un lavoratore del vescovo di Cesena era stato ribattezzato - lui e i suoi eredi - "trivoglioni". Rientravano nel leggendario paesano incredibili episodi di irrefrenabile bestialità sessuale, come riferiscono certe cronache: "M. Agnollo Dal Buschio, citadino de Cesena, questo anno, usando con una sua comare, s'atachorono insieme commo li cani, visto da ognomo"... oppure: "Francesco de Jseppo... uxando più ch'al dovere con la Bricida sua femina, si sfilò e morì...": (dalle Cronache e storie di Giuliano Fantaguzzi nel suo Caos).

Personaggi tra i più strani arrivavano spesso nei borghi, sotto le vesti di eremiti, ma anche di impostori o di maghi; vagabondi travestiti da suore o da frati si infilavano nelle case, entrando in famigliarità specialmente con le donne per ottenere ospitalità. Si tramanda che un certo "Francesco, fiorentino di patria, uomo di bell'aspetto e imberbe, tranne alcuni peli che nel mento gli nascevano sopra tre nei, ma che insieme da lui radevansi artifiziosamente, di voce femminile e sopra tutto di indole astuta, (che) si vestì dell'abito di un monaco del Terz'ordine , e in tal forma n'andò vagando per lungo spazio di ventidue anni continui, fingendo gran bontà.... Questo impostore girovago nell'anno presente giunse sul territorio di Rocca San Cassiano, terra sopra Forlì, di giurisdizione fiorentina: qui egli di suo stile tentò una fanciulla la quale fe' manifesto a que' di casa l'affronto insidioso; e quindi per loro reclamo arrestatosi colui e trovato esser maschio venne posto alla tortura...."(Storia di Forlì, di P. Bonoli)

Di impostori di tal guisa se ne trovano spesso e dovunque nel Medioevo, a cercare rifugio e ospitalità nei vari villaggi e borghi. Di maghi e di prodigi è ricca tutta quest'epoca. La vita quotidiana con le sue commedie e tragedie viene a galla attraverso i carnevali che mettono in evidenza macchiette e tipi che si potevano trovare nei vari borghi sparsi per l'Europa.
In tali feste solitamente annuali venivano riprese riti e liturgie, unendo il sacro al profano; Ci sono in proposito erudite testimonianze (come fa rilevare Le Goff nel libro citato) circa questi Carnevali, come Emmanuel Le Roy Ladurie in I contadini di Linguadoca, Laterza, Bari 1970). Un altro studioso Louis Dumont (La Tarasque, Parigi 1951) associa la festa principale, quella di Pentecoste, alla rassegna locale delle corporazioni di mestieri.



E nei Carnevali paesani si tende a esaltare il carattere orgiastico in cui il furore sessuale aveva una parte fondamentale in una società come quella di borgo o villaggio affascinata dal corpo, sempre disposta a soddisfare gli istinti fisiologici, a tuffarsi nella carnalità in cui l'unica barriera era costituita non dal senso religioso ma da un limite etico che verteva sulla natura e sul rispetto dell'ordine naturale che comunque veniva spesso violato, dentro e fuori le case, nei vicoli e nelle piazzette dei paesi.

Il Boccaccio con il suo Decameron non fa che rivelare un modo di vita portato a ridere dei gesti sessuali, anche i più provocatori. Dalle cronache dell'epoca si rileva che "... Sbroglia, idest Bertolomeo de ser Jacomo de li Ambroni da Cesena... usando con una femina contra natura, li roppe el sesso et fo condenato la vita al fuoco e per mezzo de Madonna de Forlì (Caterina Sforza) e de la duchessa di Ferrara, le quali apunto volsero informarsi e intendere la cosa, e non senza grandi rixa (risa) e piacere, ebbe la gratia e fo absolto de l'atto disonestissimo...".

Sempre dalle cronache dell'epoca, si ricava che i postriboli era un luogo in cui le belle donne entravano e uscivano con sorprendente disinvoltura: "La Cingana, giovene asai bela, putana usita del postribolo, cinque anni fece bene e poi tornovi..." "... el tamburino de rocha mozò el naso a la moglie in piaza che era andata a stare in bordello...." O ancora: "Ursolina de Cesena, masara fo de Madonna Biancofiore da Montefiore, femina bella e giovene de Valdocha, fo presa, menata in bordello e grande honore con la scarata innante e con trombe, tamburo, bacile e campanazi e pagalla, pagalla con festa e piazer...".

Il popolo medievale è fatto di uomini e donne, ragazzi e vecchi, che nei borghi e nei villaggi vivono, soffrono, ridono e piangono tutti assieme, in un collettivo che rispecchia i loro stati d'animo di gente abituata a lavorare o nei campi o nelle botteghe, impegnata in mestieri e in arti, ma è anche gente che crede ai miracoli, e sono molte le cose meravigliose, mirabilia in latino o in volgare, che fanno parte dei contenuti di magia e di mistero. Non a caso accanto alle leggende di re (la corte di Re Artù ad esempio) c'è la saga del mago Merlino. Il meraviglioso entra nel quotidiano e ne sono impastati persino i muri delle case una appiccicata all'altra, una dentro l'altra, attorno al castello del signore che a volte è un Vescovo ovvero un prelato.

E ci sono poi i riti religiosi, con le saghe di santi o di eremiti in odore di santità, di abati e di frati, di monaci che vivono nei monasteri ma che sovente si mescolano alla gente comune. E' tutto questo il Medioevo, un crogiolo di usi e costumi, fatto di leggende, rituali che uniscono il profano al sacro in un tutt'uno.

Proprio nel mese di aprile di questo anno 1999 è uscito un libro di Dario Fò, il Nobel della letteratura del 1998, che ha pubblicato la vera storia di Ravenna, attraverso i secoli dell'Impero bizantino e medievali, quando per le campagne la gente camminava sui trampoli per spostarsi attraverso le campagne paludose; anche qui uno squarcio della vita popolare in pieno Medioevo. L'autore di Mistero buffo racconta di Ravenna, della gente dell'evo di mezzo, scavando nel vissuto della gente semplice, come piace sempre a lui che in teatro ha fatto sfoggio trovando addirittura un linguaggio universale che rende bene la situazione di quelle popolazioni.
Nel libro (La vera storia di Ravenna, edizioni Panini, 330 pagine) prodotto da una serie di ricerche in molte biblioteche ha scavato e portato alla luce il patrimonio della città che è stata capitale dell'Impero d'Occidente, dai tempi di Cesare Augusto a Carlo Magno, da Galla Placidia a Teodora, sempre vista dalla parte del popolo per darci uno spaccato interessante, di fondamentale importanza per entrare nella vita quotidiana, proprio come ci siamo ripromessi di fare con questo nostro lavoro per penetrare nella vita di tutti i giorni. Nelle case e nei bassi dei borghi si respirava una confidenza con il sopranaturale, quasi una vera e propria coesistenza: si spiegano così le storie di folletti o spiriti famigliari che si annidavano, secondo le dicerie popolari, nelle parti buie delle case e in particolare nelle cantine. Anche questo fa parte del Medioevo, di una vita fatta di luci (il meraviglioso, i prodigi, i miracoli eccetera) e di ombre (la presenze di forze oscure, demoniache) che documentano un vissuto intenso, a tinte forti, al di fuori dai palazzi e dei castelli o dei monasteri.

di LIONELLO BIANCHI

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Il meraviglioso e il quotidiano nell'Occidente medievale, di Jacques Le Goff - Edizioni Laterza, Roma-Bari 1999
La miniera del mondo, di Piero Camporesi - Edizioni Il Saggiatore, 1990
La vera storia di Ravenna, di Dario Fo, Panini Editore, Modena 1999
Varia romanica, di R. Ortiz - Edizioni La Nuova Italia, Firenze 1932
Viaggio in Alemagna (1507), di Francesco Vettori, in Scritti storici e politici a cura di E. Niccolini - Edizioni Laterza, Bari 1971.
L'arca del mondo, di M. Brusatin, in Arte della meraviglia, Edizioni Einaudi, Torino 1986.





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27/11/2009 14:40

Le "Guerre Sante. Passione e Ragione" di Umberto Eco.


Umberto Eco
Guerre sante, passione e ragione
Repubblica, 5 ottobre 2001




Che qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più.

Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l' arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze "inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.

Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte.

Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria.

***

Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.

Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.

Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere.

***

La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.

L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili di una cultura "altra" si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche.

Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore.

***

In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore?

I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro. Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.

Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.

Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx).

No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni.

Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi?

Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali.

***

Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?

Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata?

Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili.

***

L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi).

Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti.

In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage.

***

Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza.

Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi.

Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.

***

Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari.

Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti.

In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.


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"Delli usi e dei costumi", a cura di B.Eilean Donan

"Delli Usi e dei Costumi"



Il Banchettare:





Costì Vi racconterò degli usi e dei costumi dello nostro tempo, delle usanze dello nostro tempo e di quantaltro possa esservi di curiosità.



Penso che sia di gradimento iniziar dal raccontarVi che in ogni castello v’è una sala sempre più grande delle altre chiamata la “sala dei Banchetti” ove si svolgon i ricevimenti dello Signore della Magione fatti di musica, danze e libagioni curate.



Li tavoli son disposti a ferro di cavallo ove di regola la posizione centrale è riservata al padrone di casa, il Signore del Castello.



L'uso di arredi mobili, smontabili e ripiegabili l’è certamente la moda del momento ed assai comoda. È composto da cavalletti di sostegno - trespoli, trepiedi o trespodi - su cui vengon allineate delle assi tenute insieme da alcune traverse fissate nella parte inferiore. I tavoli sono sempre ricoperti da grandi tovaglie, finemente decorate che testimoniano lo status sociale del padrone di casa, non è importante abbellire il tavolo, che resta nascosto dalla tovaglia, tutt'al più alle gambe dei cavalletti si aggiungon semplici decori spesso di fiori o di rami di piante.
La fortuna dei tavoli a cavalletto è di poter essere sistemati in L, a U o in file parallele. Son perfetti per feste e convitti che si svolgono all'aperto e che, in codesto caso, mettono in scena davanti agli occhi del popolo, il rito del banchetto del Signore.
Nelle pause tra una portata e l'altra i commensali sono intrattenuti da intermezzi animati, danze, recite, canzoni, pantomime, spettacoli circensi, spesso si sceglie un tema, in genere mitologico oppure tratto dalla letteratura cortese a cui ispirare la successione degli intermezzi e delle portate.



Delle Buone Maniere a tavola:

“….. e ricordati di pulirti la bocca prima di bere dal bicchiere.”
E questa una delle raccomandazioni un anziano signore dà ad un giovane che vuole ben figurare nell'alta società delli nostri tempi.

Per ogni commensale viene posta una ciotola di ceramica o di legno stagionato dove viene servita la zuppa o qualsiasi piatto a base di brodo. Un secondo e un piatto piano viene messo sotto alla ciotola, e può essere sia di ceramica che di legno. In alcuni casi si utilizzano dei piatti fatti di un pane speciale chiamati Mense ( da qui la nostra parola mensa!).
Infine viene messo a disposizione del commensale un cucchiaio ed è cura dell'invitato portarsi un coltello o usar lo suo stesso stiletto.
Ogni due persone è posto un boccale da cui sorbire le bevande ecco quindi spiegato lo motivo dell’esser educati e di detergersi la bocca prima di bere.

L’uso di quell’attrezzo che sol chi vede nel Futuro sarà chiamata forchetta alli nostri tempi non è fatto uso conoscere e, quindi, usare.
Infine il tovagliolo è conosciuto e utilizzato, ma è una chicca solo per i più ricchi.
Con questo tipo di preparazione è necessario conoscere un minimo di buone maniere per non mettere in imbarazzo li commensali.
Di conseguenza nasce il così detto galateo dove le regole più importanti sono:

*

Quando mangi non parlare con la bocca piena, ma mastica silenziosamente senza far vedere cosa hai in bocca.
*

Pulisciti la bocca prima di bere, in modo tale da non mettere in imbarazzo il tuo vicino che si servirà della stessa coppa.
*

Non nettarti le dita sulla giubba o sulla tovaglia, ma puliscitele sul tovagliolo e lavale nell'acquamanile.
*

Non pulirti i denti con il coltello e non emettere nessun rumore sgradevole che possa indurre il tuo vicino ad avere mal senso di te.
*

Non prendere il boccone più grosso e non rovistare nelle parti già tagliate cercando la più prelibata.
*

Sii accorto a non sporcare né lo tuo vestito né quello dei commensali.
*

Non stropicciare il tovagliolo e non fare dei nodi con lo stesso, ma usalo per pulirti la bocca e le mani.

Inutil dire che codesto galateo se non osservato con attenzione dà modo di non far accettare bene chi non lo segue.

Dunque la nostra non è un epoca dove sontuosi banchetti vengono preparati per gozzovigliare allegramente e per rimpinzarsi di carni e cacciagione senza un minimo di decoro, ma sono eventi ben attenti alle regole di comportamento, dove il modo di presentarsi e comportarsi sono molto importanti tanto quanto è importante indossare un bel vestito.


La minestra alle erbette che costì di seguito leggerete rientra nella categoria dei "brodetti", che invece vengon serviti in scodelle e mangiati col cucchiaio, uno per ogni invitato, in genere durante il primo servizio.
Nei brodetti può esserci qualunque ingrediente, dalle verdure alla carne, alle uova. Le minestre di questo tipo rappresentano, a volte, l'unico sostentamento per le classi povere, che spesso con l'aggiunta di qualche fetta di pane, divengon un pasto completo. Il brodetto o zuppa è un piatto assai comune.



Brave Eilean Donan



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27/11/2009 14:51

La Musica nel Medioevo

La musica prima del 1000: il canto gregoriano

il medioevo è un'epoca che copre quasi 1000 anni di storia: va infatti all'incirca dalla fine del V secolo a.d. fino al xv secolo. Questo lungo periodo storico è ricchissimo di musica. Tuttavia nella maggior parte dei casi questa musica non aveva la funzione che noi moderni le attribuiamo. Anche la musica medievale come quella antica, è ancora buona parte musica di "vita", da suonare per accompagnare un lavoro, una battaglia, un banchetto, una festa o una celebrazione. Musica insomma che aveva una funzione pratica più esterna. Questa musica veniva spesso improvvisata o composta per delle occasioni particolari. Non aveva quindi bisogna di essere scritta e tramandata ai posteri, essendo destinata a essere eseguita una sola volta. Per questo della musica medievale si hanno pochi documenti. Così non era per la musica sacra che doveva resistere a lungo nel tempo, poiché le varie cerimonie religiose dovevano resistere a lungo perché erano ripetute nel tempo. Anche la musica sacra aveva uno scopo: quella di arricchire la preghiera e dargli più importanza. I primi canti religiosi erano quasi parlati e si ispiravano ai testi biblici. In seguito al IV secolo si diffusero altri tipi di musica religiosa tra i quali "l'inno" che data la sua facilita melodica si diffusero facilmente. Intanto in occidente si erano sviluppate tradizioni liturgiche locali, e anche il canto religioso si era sviluppato, ma con diverse caratteristiche in base alla regione. Per esempio a Roma il canto religioso si ispirava alla musica ebraica e e greca. Qui alcuni pontefici tra cui papa Gregorio Magno (590-604) fecero una revisione dei canti liturgici. Dall'evoluzione del canto religioso romano nacque il canto gregoriano che prese il nome proprio da Gregorio Magno. In questo periodo nacque la notazione neumatica che permise di ricordare con più precisione le melodie. Il canto gregoriano era basato su un testo latino ( lingua ufficiale della chiesa) ed era monodico ( cioè tutti i cantori cantavano la stessa melodia). A volte la melodia era semplice e il canto poteva sembrare una recitazione intonata, a volte poteva essere ricco di fioriture e note. Il canto gregoriano era usato per le cerimonie religiose. C'erano i canti d'ufficio, che venivano recitati dai religiosi in vari momenti della giornata, e i canti usati per le messe.



Dopo il 1000; la polifonia

Dal tronco del gregoriano col tempo nacquero delle derivazioni: la polifonia. Si ha la polifonia quando due o più persone cantano o suonano insieme una diversa melodia. Il gregoriano era monodico anche se i cantori che cantavano erano molti. Alla metà del XII secolo presso la cattedrale di Notre-Dame nasce una importante scuola polifonica grazie a due grandi musicisti che ci lavoravano: Leonino e Perotino. Essi scrivevano musiche a due o più voci che venivano chiamate oragna. Parigi assunse molta importanza in questa fase della storia della musica, perché era uno dei centri universitari d'Europa. La polifonia sottintendeva proprio una concezione della musica meno ideale, meno spirituale, più matematica, infatti comporre a 2 voci richiedeva di calcolare la durata dei suoni con la massima precisione. Proprio per questo nacque la cosiddetta notazione mensurale.


La musica profana: trovatori e trovieri

Poco dopo il 1000 la musica profana cominciò ad arricchirsi soprattutto in Francia con dei poeti-musicisti che scrivevano poesie che in seguito cantavano con delle melodie fatte da loro. Questi musicisti erano nobili, feudatari, cavalieri e dame che non facevano il musicista di mestiere ma si dilettavano a comporre raffinate musiche da cantare ad esempio ad una festa. A seconda della zona in cui vivevano essi erano chiamati trovatori o trovieri. Gli argomenti trattati dai trovatori e dai trovieri erano vari ma soprattutto parlavano d'amore. Le canzoni dei trovatori e dei trovieri erano molto diverse dal canto gregoriano


Gli sviluppi della musica nel trecento: L'Ars Nova

Nel 300 si sviluppo un'arte nuova che prese il suo nome da un trattato di un'insegnante francese Con l'espressione "arte nuova" Vitry voleva intendere le progressioni fatte nella scrittura della musica. La caratteristica dell'Ars Nova fu quella di attribuire la polifonia a la musica profana. L'Ars Nova si sviluppò soprattutto in Italia e in Francia. Il massimo esponente di questa nuova corrente musicale fu Guillame de Machault, che lascio numerose composizioni sia sacre che profane particolarmente raffinate e complesse. In Italia il culmine dell'Ars Nova fu Francesco Landino a Firenze. Questo musicista, cieco dalla nascita fu autore di moltissima musica da organo. Poiché Landino improvvisava la sua musica non ci è pervenuta. Invece conosciamo le sue composizioni vocali che stranamente erano profane.



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27/11/2009 14:52

La Danza nel Medioevo

La Danza

Gaia e festosa fino a tutto il Trecento, veloce e geometrica nel Quattrocento, la danza tra medioevo e Rinascimento è un fenome storico del quale solo da pochissimo tempo forse un decenio si è intrapreso in Italia uno studio organico che tiene conto di tutto i punti di riferimento storici, iconografici, poetico utili per arrivare alla comprensione e alla riproposizione al publico. Si parte con la ricostruzione di movimenti e coreografie delle danze medievali, possibile solo con l'analisi del materiale iconografico disponibile e la comparazione con le musiche da danze più antiche. Un esempio è il "codice London", conservato al British Museum: redatto in Italia, nel sud della Toscana o in Umbria, tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV, contiene una raccolta di "Istanpitte" o "Estampide", "Saltarelli", "Trotto" e due composizioni più lunghe "Lamento di Tristano e Rotta", "Manfredina e Rotta della Manfredina". Su alcuni di questi reperti musicali è stato possibile ricostruire alcuni momenti di danza: balli in cerchio, danze processionali, a catena aperta che si snodano passando sotto l'arco formato da una coppia che, a braccia levate, si tiene per mano o per un corto bastoncino, come nel celebre affresco di AMBROGIO LORENZETTI ( il Buon Governo) nel Palazzo Publico di Siena. L'altro riferimento e filone di ricerca, molto più ampio è quello sulla danza del Quattrocento italiano. In questo periodo compaiono i primi codici, opera dei maestri attivi alle corti dei signori del tempo. In particolare "DE ARTE SALTANDI ET CHOREAS DUCENDI" di Domenico da Piacenza, " DE PRATICA SEU ARTE TRIPUDII VULGARE OPUSCULUM" di Guglielmo Ebreo da Pesaro e "LIBRO DELL'ARTE DEL DANZARE" di Antonio Cornazano. I testi erano scritti per essere donati ai principi, "datori di lavoro" dei maestri di ballo, e allora erano ricercati e miniati, oppure erano semplici promemoria per i maestri, e quindi redatti con la scrittura diplomatica dell'epoca. In entrambi i casi la descrizione delle danze era precisa, ma sintetica, con scarsi riferimenti a particolari come la posizione delle mani, l'orientamento interno della sala o negli altri luoghi deputati al ballo, la posizione delle coppie e cosi via. Particolari che possono essere ricostruiti oggi grazie ai molti dipinti, miniature e affreschi, giunti fino a noi, spesso di straordinaria precisione di particolari. Il patrimonio costituito dalle danze italiane del Quattrocento non è soltanto un'inesauribile miniera di movenze, coreografie, musiche, è anche un modo per riscoprire, nella maniera più genuina e innovativa, il modo di essere e di pensare che caratterizzò la vita sociale e di corte dell'Umanesimo. La danza non era solo un passatempo, un divertimento, una tecnica di corteggiamento, una forma ludica. In quelle coreografie geometriche, nella matematica rispondenza di musica e passo, di partizioni del terreno e di movenze, c'è tutta la poesia e la concretezza del Rinascimento.



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27/11/2009 15:06

Il Pensiero medievale, a cura di N. Feliciani
Colui che avrà intenzione di leggere questo misero articolo, giustamente, si chiederà l’utilità di tale scritto. A ciò risponderò immediatamente poiché ritengo che i pochi lettori che avranno la pazienza di leggere questo trattato hanno il pieno diritto di sapere.

Ebbene, in qualità di appassionato di Medioevo ho scoperto che per comprendere, amare e studiare appieno tale periodo non è necessaria la sola capacità di saper leggere e scrivere ma è necessario, anzi è d’obbligo, conoscere la mentalità che aleggiava in quel periodo ingiustamente definito “dei secoli bui”.

Ditemi, chi meglio di un uomo medievale, o meglio, la coscienza di tale persona può conoscere il periodo in cui è nata, si è sviluppata ed è morta? L’articolo che ho scritto è volto a fornire una “guida” alla lettura del periodo Medievale fornendo delle dritte su ciò che si presume passava per la testa di un uomo di mille anni fa.

Ringrazio da principio chi leggerà questo misero articolo.
Grazie.


La storia come piano divino


Iniziando a studiare ciò che l’uomo medievale pensava della sua epoca è utile analizzare il significato della parola “Medioevo” poiché ci consente di comprendere buona parte del discorso. Secondo l’abate calabrese Gioachino da Fiore (vissuto durante il 1200) la storia era caratterizzata da tre periodi:

1.L’era del Padre
2.L’era del Figlio
3.L’era dello Spirito Santo

L’epoca che stiamo analizzando corrisponde alla seconda, cioè l’era di mezzo; non a caso la parola “medioevo” deriva da “media aetas”. L’era tra l’incarnazione di Dio (prima era) e il suo ritorno nel Giudizio Finale (seconda era). Come ben si nota il significato di “era di mezzo” analizzato è totalmente diverso da come viene concepito dall’uomo del giorno d’oggi, il quale è convinto che il Medioevo sia l’era di mezzo tra l’Antichità e l’epoca moderna.

Concezione comune ma errata. L’uomo del medioevo concepiva il periodo in cui viveva come un piano divino ben definito. Ciò costituiva la base della mentalità di quell’epoca ed era estesa più o meno su tutto il territorio europeo. Per portare un esempio di ciò basti pensare al terrore che aleggiava poco prima dell’anno mille, anno in cui si temeva incominciasse l’apocalisse.

Tutto era quindi previsto da Dio: il tempo, gli avvenimenti e gli uomini.

La concezione dello spazio

Tre sono le costanti che caratterizzano il punto di vista di un epoca:
- Il luogo
- Il tempo
- Gli uomini

Il mio misero articolo si impegnerà a descriverle tutte e tre secondo la visuale medievale in modo da raggiungere il fine che si è posto.

Secondo l’uomo medievale la terra era al centro dell’universo. La forma del nostro pianeta era concepita come un disco piatto che galleggiava in un immenso oceano. I continenti erano tutti uniti in unica zolla di terra poiché se così non fosse stato la parola di Dio non avrebbe potuto raggiungere tutto il genere umano; cosa improbabile poiché esplicitamente espressa nel Vangelo.

Al centro della terra vi era la celeste città di Dio: Gerusalemme. Qui si congiungevano i tre continenti. Prendendo tra le mani una carta medievale si nota che al Nord come lo concepiamo noi, è presente l’Asia, nel quadrante inferiore destro del cerchio in cui sono rappresentati i tre continenti (allora conosciuti solo Europa, Asia, Africa) è presente il continente Africano e nel quadrante in basso a sinistra quello Europeo.

Le carte medievali come ben si vede non servono alla localizzazione di un luogo e alla quantificazione di una distanza poiché la rappresentazione è sproporzionata alla realtà. Esse servivano a illustrare la storia del progetto di Dio e quindi era più urgente la rappresentazione dei luoghi descritti nella Bibbia più che l’ubicazione di un borgo. Ovviamente le misure stabilite da Dio venivano adottate non solo negli spazi geografici ma anche nello spazio dei conventi e delle chiese che venivano ad avere un valore simbolico.

Basta osservare che alcuni monasteri si attenevano alle misure del Santo Sepolcro alle quali si davano interpretazioni molteplici a me ancora sconosciute. Infine per quanto riguarda i metri di misura cosa si poteva scegliere meglio dell’uomo immagine di Dio? Da qui la nascita dell’utilizzo del cubito, del piede e passo per le estensioni, giornate di viaggio per le distanze, per l’aratura le superfici di una giornata di lavoro, lo iugero, la moggiata e così via.


La concezione del tempo

Come veniva considerato il tempo? Ormai tutti coloro che avranno iniziato a leggere e a comprendere questo articolo sapranno prevedere la risposta. Ebbene anche il tempo era considerato (come in parte già detto) secondo una rappresentazione della volontà divina. Innanzitutto venivano attribuite varie teorie addirittura sulla durata intera del nostro pianeta.

Una di queste sosteneva, facendo riferimento ad una frase del Salmo 90 secondo cui davanti al Signore mille anni sono come un giorno, che la terra avrebbe avuto 6000 anni di vita poiché essendo la settimana della creazione composta da 7 giorni la moltiplicazione è presto fatta. Il settimo ed ultimo giorno – millennio non era compreso poiché era contato come Sabato del mondo quindi ultimo giorno, probabile periodo dell’Apocalisse.

Analizzando invece la misurazione del tempo si nota che l’anno iniziava in giorni particolarmente importanti per il calendario religioso quali Natale, Assunzione di Maria Vergine e Pasqua il quale era particolarmente scomodo per la sua variabilità. Nei giorni particolarmente importanti e significativi sempre a livello religioso venivano interrotte tutte le attività belliche.

Le ore venivano misurate in modo diverso durante l’anno ed erano disuguali l’una dall’altra. Il giorno cominciava attraverso la liturgia della vigilia, che veniva celebrata la sera precedente, e si concludeva con il tramonto del sole. Vi erano due ore di pasto al giorno che venivano ridotte a una durante la Quaresima.


La concezione dell'uomo

Nel paragrafo finale del nostro viaggio analizzeremo brevemente ciò che era nel Medioevo l’uomo. L’ uomo era considerato l’immagine perfetta di Dio sebbene la sua posizione di peccatore. A causa del peccato originale l’essere umano era pieno di voglie e tentazioni che rendevano la sua esistenza sulla terra un qualcosa di non bene accetto da Dio.

Era quindi compito dell’uomo ripudiare il peccato e fuggirne l’occasione attraverso penitenze (a volte anche corporali) e la recita di preghiere. Questa doveva essere la prima preoccupazione di ogni essere umano sin dalla sua nascita. Importanti erano i riti religiosi come il battesimo che doveva essere somministrato immediatamente donde evitare che l’anima di un povero bimbo morto finisca in un luogo tra il cielo e l’inferno (quello che noi chiamiamo Limbo).

Per scacciare i demoni durante i battesimi venivano celebrati brevi rituali dagli esorcisti. L’uomo doveva anche astenersi dal toccare o dal venire a contatto con persone o cose che per le loro caratteristiche erano già condannate all’inferno. I monaci e i chierici erano considerati capaci di dire preghiere più forti di quelle di un umile peccatore. Tutto ciò dava alla vita terrena una certa aria di severità.

Conclusione

Come si è ben capito la chiave per capire la mentalità medievale è quella di porre al centro di tutto la volontà di Iddio. Spero di non avervi annoiato con questo stupido articolo e ringrazio chi avrà il coraggio e la pazienza di leggerselo sino queste ultime righe.

Nicholas Feliciani





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27/11/2009 15:14

Il senso del Tempo e le Stagioni

Il sole imprime al tempo il suo ritmo: tempo breve con una alternanza giorno-notte; tempo lungo con il ritorno ciclico delle stagioni e degli anni.

Questa successione immutabile e perfetta appartiene a Dio, dunque alla sua Chiesa. Le feste liturgiche costellano i grandi avvenimenti astronomici di un anno, le preghiere seguono il ritmo del giorno e della notte e le campane della densa rete di chiese che copre l’Occidente segnalano ai fedeli le principali suddivisioni della giornata tra due Angelus.


Il laico non sa valutare esattamente il tempo, stenta a conservare la memoria delle cose lontane e non è in grado di proiettare dei progetti verso il futuro. Allorché parte per un pellegrinaggio o per un lungo viaggio, non è in grado di dire quando ritornerà o che cosa farà dopo il suo rientro. Fatte alcune eccezioni, cronisti e romanzieri sono molto imprecisi quanto a date e cronologie: gli eventi, infatti, sono situati in rapporto alle grandi feste o ad altri avvenimenti la cui importanza colpisce e si imprime nella memoria.

(Tratto da "La vita quotidiana ai tempi dei cavalieri della tavola rotonda" di Michel Pastoureau, 1990)


Il ritmo del tempo


La mentalità medievale è sensibile soprattutto al ciclo regolare dei giorni, delle feste e delle stagioni, alla permanenza delle attese e dei ricominciamenti, e nello stesso tempo all’inesorabilità di un lento e impietoso invecchiamento. Questa rassegnazione “passatista” deriva probabilmente dal fatto che l’uomo del Medioevo, il cavaliere come il contadino, ha del tempo solo un’esperienza concreta. La riflessione intellettuale, i calcoli precisi sono riservati a un piccolo numero di chierici.

Tutti gli altri conoscono solo l’alternanza dei giorni e delle notti, dell’inverno e dell’estate. Il loro tempo è il tempo della natura, scandito annualmente dai lavori agricoli, dalle scadenze e dai tributi da versare al feudatario. Gli scultori hanno ripetutamente rappresentato sui portali delle grandi cattedrali il calendario della vita contadina dove ogni mese è rappresentato da un’attività: gennaio è il mese della festa e della tavola; febbraio quello del riposo, in cui si resta a casa davanti al focolaio; marzo quella della ripresa dei lavori agricoli, in cui si zappa e si tagliano le viti; aprile è il più bel mese dell’anno, il mese del rinnovamento; maggio è il mese del signore che parte per la caccia o per la guerra; giugno è riservato alla fienagione e luglio al raccolto; agosto alla battitura del grano; settembre e ottobre sono i mesi della vendemmia e della semina; in novembre si fanno le provviste di legna per l’inverno e si raccolgono le ghiande per il maiale che verrà ucciso in dicembre.


Il tempo breve: il giorno


Nel borgo è possibile contare le ore anche con le campane del monastero che suonano l’uffizio press’a poco ogni tre ore: i mattinali a mezzanotte, le laudi alle tre, la prima alle sei, la terza alle nove, la sesta a mezzogiorno, la nona alle quindici, il vespro alle diciotto e la compieta alle ventuno. Bisogna osservare che queste ore del giorno e della notte erano molto approssimative, e comunque diverse dalle nostre ore di 60 minuti, per l’eccellente ragione che solo gli equinozi comportavano dei giorni uguali alle notti, ossia 12 ore di giorno e 12 ore di notte pari esattamente a 24 delle nostre ore.

Tra equinozio e solstizio le ore aumentavano o diminuivano; erano approssimativamente uguali tra loro solo nel corso di uno stesso giorno Alcuni conventi possiedono degli orologi idraulici, simili ad antiche clessidre, costituiti da un recipiente da cui l’acqua scende goccia a goccia. Si usa più spesso il quadrante solare e, per misurare i tempi brevi, una semplice clessidra a sabbia.

Di notte il monaco che suona l’ufficio si orienta sulla posizione degli astri o sulla durata di una candela. L’uso del tempo in una giornata è evidentemente molto diverso a seconda delle regioni, delle stagioni e delle categorie sociali. Alcune costanti possono essere osservate: ci si alza presto, prima del levar del sole, perché le attività cominciano all’alba. Raramente si assume del cibo appena alzati, perché le pratiche religiose lo vietano.

La colazione avviene più tardi, verso l’ora della terza. Il pranzo, più abbondante, si fa tra la sesta e la nona ed è seguito da un momento di riposo dedicato al gioco, alla lettura, a una passeggiata o alla siesta. Le attività riprendono verso metà pomeriggio e durano fino al tramonto. La cena si situa tra vespro e compieta, è più lunga degli altri pasti e di solito è seguita da una veglia. Si va a letto presto in quanto l’illuminazione con candele di cera o di sego o lampade a olio è costosa e pericolosa.

La notte è sempre più meno inquietante: è il tempo degli incendi dei tradimenti e dei pericoli soprannaturali. Ovunque le leggi vietano di proseguire il lavoro dopo il cader delle tenebre e puniscono severamente i reati e i delitti commessi fra il calare e il sorgere del sole.


Il tempo lungo: l’anno e il calendario


Il ciclo dell’anno è quello stesso dl calendario liturgico, i cui tempi salienti sono l’Avvento e la Quaresima e le feste principali Natale, Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste e Ognissanti. E’ nel 325, con il Concilio di Nicea, che la data del natale viene definitivamente fissata al 25 dicembre, e solo dal VII secolo la festa di tutti i santi cade il 1° novembre. La data delle altre grandi feste è mobile. Il primo compito dei computisti è di determinare quella di pasqua , fissata a partire dal VI secolo nella “domenica seguente la prima luna piena successiva al 21 marzo”.

E ancora si calcola così: come ne medioevo non deve cadere prima del 22 marzo e dopo il 25 aprile, l’ascensione si celebra quaranta giorni dopo e la pentecoste cinquanta. Se l’anno liturgico inizia la prima domenica di avvento, quello civile varia secondo le regioni: in Inghilterra l’anno inizia il 25 dicembre, spostato poi al 25 marzo fino al 1751; in Francia gli usi si differiscono da un’unità amministrativa ad un'altra. Negli atti e nelle cronache non è di uso generale l’indicazione della data a partire dall’incarnazione di Cristo.

In genere sono preferite formule come “l’anno del regno del nostro re..” Altri usi attestano ulteriormente l’influenza della vita religiosa sul calendario: in certi periodi dell’anno, il giorno della settimana viene indicato in base alla argomento del brano del Vangelo letto in chiesa. In tal modo il giovedì della seconda settimana di Quaresima è detto il giorno del “ricco cattivo”, il venerdì quello dei “vigniaioli” e il sabato quello dell’”adultera”.

Ma questi problemi sono ad appannaggio dei chierici, mentre signori e cavalieri pongono attenzione alle date delle corti di giustizia e delle assemblee feudali, delle investiture e delle cerimonie cavalleresche, del pagamento dei tributi o dell’apertura delle fiere o dei mercati.



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27/11/2009 15:27

In Taberna quando sumus...

La cultura alimentare nel medioevo e la tradizione narnese. Secondo lo storico Massimo Montanari, alla base di molti studi attorno alla cucina ed all’alimentazione nel Medioevo (così come per altre epoche storiche) si pone spesso un equivoco fondamentale.
La “vexata quaestio” non dovrebbe infatti prendere in esame il “cosa” si mangiasse all’epoca, bensì il “chi” mangiasse quella certa cosa. Il valore simbolico del cibo è da sempre parte integrante dell’azione stessa del mangiare e soprattutto nel periodo a cavallo tra Medioevo e Rinascimento esso assurge a vero e proprio elemento discriminante del Convivio.

I grandi ricettari medievali, a partire dal celebre “Liber de Coquina” (nato alla corte Angioina di Napoli, poi modificato secondo le esigenze locali), passando attraverso l’opera di Maestro Martino, così come i vari ricettari rinascimentali fino a quello di Bartolomeo Scappi, hanno spesso alla base le stesse “materie prime”, ciò che ne diversifica il valore sociale, permettendoci quindi di distinguere una cucina popolare da una nobile, è invece l’uso simbolico che di esse ne fa il cuoco.

La permanenza di sapori e gusti che passano dalle cucine del popolo a quelle di corte, è una caratteristica fondamentale dell’alimentazione medievale: prodotti umili come le verdure, e specificatamente i legumi (vero e proprio leit motiv delle pietanze popolari) nelle loro preparazioni tipiche, come le zuppe e le farinate, sono presenti sia nelle ricette contadine che in quelle dei nobili.

Nel primo caso però esse rappresentano spesso l’unica pietanza disponibile, a mo’ di succedaneo della carne (inaccessibile ai più poveri) e persino del pane, soprattutto nei periodi di grande carestia, in cui ogni granaglia veniva frantumata e trasformata in farina per farne pane.

Nei ricettari dei Nobili le stesse pietanze vengono nobilitate appunto perché accostate a cibi alti e costosi: ecco quindi che la classica “fava infranta” (piatto a base di fave, pane ed olio) della tradizione contadina si ritrova adagiata accanto all’arrosto di capriolo, fungendo da abbellimento del piatto principale.

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Il prodotto umile viene quindi nobilitato a tavola, ma la sua natura nutrizionale resta la stessa per ogni ceto sociale. Ecco quindi l’importanza della domanda iniziale: chi mangia detta il simbolo insieme all’uso; l’aglio (e la salsa che ne prende il nome, l’agliata) resta cibo “rusticano” ma diventa artificiosamente civile quando viene posto accanto o sopra “arrosto di pavaro”.

Nel momento in cui l’aglio si conficca nel papero arrosto (di nuovo con tutta la simbologia del cibo, in questo caso non si può non ricordare il povero cigno che nei “Carmina Burana” viene appunto arrostito a mo’ di paparo…) esso si nobilita.

Secondo tratto di nobilitazione del cibo contadino è nell’uso delle spezie: esse rappresentano la ricchezza per eccellenza, in quanto rare e molto costose, l’uso smodato di spezie a tavola è sintomatico della ricchezza del Signore. Chi ha molti soldi pretende molte spezie, anche a rischio si rendere immangiabile il cibo così proposto; l’esagerazione nell’uso delle spezie (cannella, pepe, zafferano, cinnamomo, cardamomo ecc..) è una caratteristica dei Nobili rinascimentali.

All’interno dello già citato Liber de Coquina sono presenti alcune ricette in cui le spezie vengono indicate in quantità spropositate rispetto alla vivanda (e ciò renderebbe del tutto immangiabile qualsiasi cibo), proprio per esaltarne l’esclusività, la destinazione nobile, ad esclusione del popolo.

Una volta chiarito quindi l’equivoco di fondo, possiamo finalmente prestare la nostra attenzione al “cosa si mangia” nel Medioevo: alcune vivande sono – per così dire – trasversali, ovvero appaiono sia nelle cucine del popolo che in quelle dei sovrani, tra queste possiamo ribadire l’importanza dei legumi e dei cereali, così come delle bevande (il vino soprattutto), mentre dobbiamo iniziare a fare delle distinzioni per ciò che riguarda l’uso ed il consumo della carne.

La carne riveste un ruolo sociale e simbolico assoluto, pari forse solo al ruolo del pane (che però ha una valenza anche religiosa, pensiamo solo all’eucaristia cristiana): essa è presente prevalentemente sulle tavole dei signori, mentre ai villani è interdetta, o almeno limitata alle parti meno nobili.

La letteratura ci offre spunti molto interessanti a tal proposito, basti pensare al Decamerone di Boccaccio, o al mito di Cuccagna, in cui i polli arrosto e le anatre (ancora!) allo spiedo sono elementi essenziali dell’onirico contadino. Per ciò che riguarda le parti della carne in questione, tutti hanno ben presente l’immagine tradizionale del re che banchetta a base di coscio d’agnello, mentre il povero Bertoldo è costretto a cibarsi delle interiora (il cosiddetto “quinto quarto” dell’animale) oppure – se fortunato – dell’interno dell’oca ripiena.

In ogni caso si tratta di una vera e propria esclusione del popolo dall’esteriorità e vigoria delle parti nobili degli animali, così come ci è nota l’usanza (anche grazie alle leggende di Robin Hood) storicamente attestata, soprattutto in Inghilterra, di vietare l’ingresso e la caccia (nobile sport) al popolo all’interno dei parchi reali per cacciare selvaggina.

Da tutto ciò possiamo ben comprendere come la carne rappresentasse un vero e proprio spartiacque sociale nel Medioevo, e contemporaneamente accresce anche l’importanza di un animale, il meno nobile, per la gastronomia dell’epoca, ovvero il maiale.

Alcuni storici pongono l’attenzione su una sorta di “linea gotica” alimentare che sembra attraversare l’Italia Medievale: nella cosiddetta “Longobardia” e parzialmente nel Ducato di Spoleto si tende la cosiddetta linea della “birra–maiale” (nell’accezione del lardo), mentre a sud, nella “Romania” e nelle due Sicilie parliamo di linea “vino–olio”.

Tale divisione non può certamente essere considerata tassativa, eppure c’è del vero: l’importanza del maiale in tutte le sue forme, e della sua carne anche come base di condimenti e di zuppe è indubbia anche in Umbria.

Il maiale quindi come carne popolare, ed il grasso di maiale utilizzato in ogni tipo di ricetta, anche accanto alle spezie, allo scopo di favorire la conservazione delle carni vendute al mercato. Il mercato narnese nel Medioevo è d’altronde l’obiettivo prediletto dei controlli antisofisticazione, e da ciò che possiamo dedurre dagli Statuti, queste non dovevano essere rare.

Sembra piuttosto consueto l’uso di soffiare aria nelle carcasse degli animali esposti per renderli più appetibili agli occhi degli acquirenti, così come alcune spezie che venivano usate in sovrabbondanza per eliminare il fetore di carni vecchie, soprattutto d’estate. Tutti espedienti che sembra fossero all’ordine del giorno nella Narni medievale, e che – al pari delle truffe nelle taverne – rappresentano una delle maggiori preoccupazioni del Vicario.

Il vino delle taverne

Già le taverne: cosa si beve nel Medioevo? E come nascono le moderne taverne della Corsa all’Anello? La questione è duplice: negli Statuti medievali si disciplina con estrema attenzione la somministrazione del vino, insieme alle pene per chi ne adultera la composizione.

All’interno della taverna, presso il banco della mescita, deve essere ben visibile una sorta di “boccale tipo” legato ad una catena e sigillato: solo quella dovrà essere la misura dei bicchieri in vendita, e chi contravvenisse a ciò dovrà pagare molti soldi cortonesi.

Simile attenzione è posta poi anche alla composizione della bevanda stessa: si proibisce l’aggiunta di spezie e zuccheri che possano alterarne il sapore o la gradazione alcolica.
Interessante è inoltre il capitolo che regola la vendita del vino novello: chiunque ne voglia vendere in città, nel periodo indicato (Novembre – Dicembre) dovrà porre all’esterno della propria Locanda un rametto d’ulivo o d’altra pianta, e ciò starà ad indicare la vendita del nuovo vino.

Curioso è il legame onomastico tra questo uso medievale ed il nome attribuito popolarmente al classico bicchiere di vino (ancora oggi), ovvero la “foglietta” proprio nella inconsapevole memoria di tale usanza.

Cosa si serve nelle taverne medievali? Vino soprattutto, ma anche "claereria", ovvero vino speziato, più forte, distribuito anche dagli Speziali della città, e qui presente.
Il cibo è popolare: dalle paniccie (focacce di cereali o legumi) alle torte, prodotte ancora oggi in Umbria con i cosiddetti “testi” allo stesso modo.

Le pietanze da Taverna devono garantire un buon commercio del vino, e quindi devono stimolare la sete: la minestra di fagioli secchi ad esempio, molto salata, detta anche “Macco” (dalla medesima etimologia "maccare", "ammaccare" ovvero ridurre a farina e impastare, nasceranno poi i maccheroni - gnocchi, nel significato più antico del termine, una vivanda cara alla cucina contadina), e lo scapece, ovvero pesce fritto e poi marinato in sale ed aceto per una lunga conservazione. Proprio questo cibo viene esplicitamente definito “schibezia a tavernaio” in un ricettario del XIV secolo.

E’ interessante notare, inoltre, come le taverne medievali siano luoghi in cui non valgono le differenze di ceto sociale, differentemente dal convivio domestico (e soprattutto quello dei nobili) in cui invece la distanza dal Capotavola diventa quasi metafora di grado vassallatico, per cui gli ospiti più vicini al Signore lo sono anche dal punto di vista sociale, mentre la distanza che aumenta al desco simboleggia anche la distanza sociale. Nelle taverne vigono invece i tavoli rotondi, dove (come ci spiega bene il mito Arturiano) tutti gli ospiti hanno pari grado: ciò ci è testimoniato sia dalle descrizioni letterarie che da qualche immagine dell’epoca.

Le Hostarie moderne (a proposito, il nome si rifà all’uso di avere tavernieri di origine germanica nel tardo medioevo anche in Italia, per affinità con la parola Host, ospitante), nate negli anni ’70 nell’ambito della festa narnese, hanno proposto sin dall’inizio una scelta di piatti tradizionali, riallacciandosi alla cultura contadina di inizio secolo, conciliando memoria locale e gusti popolari.

Nei primi anni le Hostarie narnesi hanno - per così dire – ricreato un immaginario gastronomico medievale rileggendo ricette popolari dell’era pre-industriale, senza badare troppo alla filologia alimentare, bensì puntando l’attenzione ai gusti forti ed ai profumi d’arrosto. Le stesse Taverne si sono poi evolute nel tempo, ed oggi accanto alla tradizione popolare della cucina umbra si affianca una ricerca storica più filologica, che vuole proporre i veri gusti medievali.

Le seconde taverne della città: Le Stranezze a Mezule, la Taverna del Pozzo ed il Cantinone a Fraporta, la Taverna degli Anelli a S.Maria possono proporre finalmente un vero affresco di sapori medievali a chiunque sia curioso di sperimentare un viaggio nel tempo attraverso tutti i sensi, in un’orgia di colori e sapori, seguendo i dettami di Maestro Martino.

Breve Bibliografia di riferimento

- Camporesi, P. Alimentazione, folclore società. Parma, 1983
- Hilario, Franco Jr. Nel paese di Cuccagna. Ed. Città Nuovam Roma 2001
- Duby, G. Guerrieri e contadini nel Medioevo. Ed. Laterza, Bari-Roma 1975
- Peyer, Hans C. Viaggiare nel Medioevo. Ed. Laterza, Bari 1991
- Montanari, M. Alimentazione e cultura nel Medioevo. Ed. Laterza, Roma-Bari 1988
- Montanari, M. Convivio. Ed. Laterza Roma-Bari 1989
- Montanari, M. Contadini e città tra Langobardia e Romania. Ed. Laterza, Roma-Bari 1988

(a cura di F.Ronci, cff: www.medioevo.com)



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La Birra!!!


Birra in Europa nel Medioevo



Testo di Stefano Buso. Free lance, socio A.S.A. (Associazione Stampa Agroalimentare Italiana), ambasciatore AIGS (Accademia Storica Gastronomica Italiana) esperto food&beverage. Scrive per alcuni importanti magazine del settore food. È libero docente lecturer presso l'Uniper del Veneto Orientale.



Come mai la birra si diffuse con celerità in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano e, cosa importante, perché era particolarmente apprezzata? Dopo la caduta dei Romani e degli idoli pagani si diffuse una massiccia cristianizzazione che sconvolse l’Europa dal punto di vista sociale, politico e demografico, causando massicce ondate di migrazione in tutte le latitudini del continente. Proprio in quel periodo, alcuni monaci irlandesi diffusero la birra dalla loro terra in tutta l'Europa, soprattutto nell’Europa del nord, dove la birra era considerata un prodotto indispensabile e particolarmente apprezzato; bere acqua era, infatti, considerato poco salubre e segno di povertà. Inoltre la birra era senz’altro più buona!
Nei monasteri si praticava lo studio dell'arte birraia, poiché il consumo di birra non comportava l'interruzione del digiuno, pratica questa molto sentita e diffusa tra i monaci. Gli storici del tempo riportano fedelmente che nel X secolo la razione giornaliera di birra dei frati era di cinque misure, ognuna delle quali corrispondeva ad un litro abbondante. Non male come consumo a scopo antisettico! Inoltre, la bionda bevanda divenne un'importante fonte di guadagno e le birrerie dei monasteri si trasformarono in mescite ben gestite e soprattutto molto frequentate.
Con il medioevo s’introdusse l'impiego del prezioso luppolo come ingrediente. Il vantaggio del luppolo fu l’effetto antisettico ed inoltre, le birre così prodotte si potevano conservare per periodi molto lunghi, senza limitazioni, rendendone possibile il commercio e facendone una bevanda ''sicura'' sotto l'aspetto igienico. L'esempio più antico di una legge della purezza risale però al 1447 e fu emanata dal Consiglio della città di Monaco di Baviera, in Germania.
Tali disposizioni di diritto alimentare giovarono alla qualità e alla diffusione della birra. In aree come la Svizzera l'arte birraia fiorì, ma solo fino nel tardo medioevo. Più tardi, i resoconti relativi al consumo di questa bevanda diventano più rari, incerti e con pochissimi dati. La coltivazione della vite era sempre più imperante e intensiva. Numerosi cattivi raccolti e conseguenti carestie non permisero l'impiego dell’orzo per la fabbricazione di birra e così l'arte della bronzea bibita rischiò di cadere nell’oblio. Fino al Seicento la produzione di birra dipendeva dal prezzo dell'orzo e del vino: se c'era molto grano era venduta a buon mercato, se invece mancavano i cereali a causa del cattivo raccolto, la produzione era quasi interrotta.

Breve storia della birra

La birra viene preparata utilizzando quattro elementi base: acqua, malto, luppolo e lievito, impiegati in proporzioni e modalità diverse.

Partendo da una materia prima già lavorata, ossia il malto di cereali (il più usato è l'orzo, germinato e poi essiccatto, per rendere disponibi gli zuccheri), le fasi caratteristiche del processo sono la produzione del mosto, la bollitura, la fermentazione, la maturazione e il confezionamento. Ovviamente le variabili da tenere in considerazione a seconda del tipo di birra che si vuole ottenere sono quasi infinite.

Questa non è solo la bevanda-alimento più diffusa al mondo, ma è anche tra le più antiche. La prima prova della produzione di una pozione assimilabile alla birra risale a circa il 3700 a.C. in Asia. I popoli artefici della sua diffusione furono i Sumeri, gli Assiro-Babilonesi (attività svolta sacertosse), e in seguito gli Egizi.
Se vogliamo cercare le origini della birra moderna dobbiamo andare all’età del Ferro nel mondo celtico. La parola birra, tedesco "bier", francese "bière", viene probabilmente dalla stessa radice del celtico "brace", che secondo Plinio indicava una specie di cereale (scandella o orzo distico) fermentato e bruciato al fine di ottenere una bevanda.

L’italiano antico "cervogia" e lo spagnolo "cerveza" si rifarebbero invece al celtico "ceruesia", che indicava il colore di una birra scura simile al manto del cervo.
Gli Ateniesi la consumavano per la festa di Demetra e durante i giochi olimpici, ma la consideravano una bevanda poco virile per il suo basso contenuto alcolico.

Sembra che le prime aree italiane italiane dove la produzione di questa bevanda si diffuse furono l' Etruria e la Cisalpina occidentale, almeno dal VII sec. a.C.

Strabone (IV 6,2), parlando dei Liguri della costa “tra Monaco e l’Etruria” riferisce che “vivono per lo più delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano le terre vicine al mare e specialmente i monti”.
Plinio ne ricorda l'utilizzo da parte dei Romani più per le proprietà curative e cosmetiche che di bevanda. Pare che il primo pub della penisola aprì i battenti nell'83 d.C. grazie ad Agricola, il governatore della Britannia grande estimatore della pozione, che di ritorno a Roma si portò al seguito dei mastri birrai inglesi.
Apprezzata dai popoli germanici e celti, la birra si diffuse con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, diventando il simbolo della cultura britannica.
Nel Medioevo il processo di birrificazione, che fino a quel momento era stata un'attività svolta delle sole donne, si trasferì dentro le mura dei monasteri. Si preparava una birra “leggera”, adatta ad esser consumata quotidianamente, e una birra ad alto contenuto alcolico, destinata alle occasioni speciali.
Pian piano la birrificazione passò nelle mani maschile dei monaci, i quali cercarono di migliorare il gusto e la qualità della bevanda.
Col passare del tempo il luppolo entrò nella birrificazione, sostituendo una mistura di erbe chiamata “Gruyt”, composta tra l’altro da bacche di ginepro, prugnolo, cannella, cumino selvatico, anice, genziana, rosmarino.
Con l’uso del luppolo la bevanda rivelò un gusto simile alla birra dei giorni nostri, anche se l'utilizzo del lievito era ancoro sconosciuto e la fermentazione un processo casuale.
Dopo il Mille la birra riscosse grande popolarità presso tutte le classi sociali, tanto da diventare un bene tassato. In Italia la "cervogia" (come si chiamava allora la birra) era consumata prevalentemente dagli uomini poiché per le donne la sua assunzione poteva avvenire solo sotto controllo medico.
Nel Cinquecento i produttori di birra scoprirono come controllare con successo la fermentazione dell'orzo, apportando migliorie in termini di qualità e quantità; fu in questo secolo che divenne la bevanda della Riforma, amata per la bontà e per essere un prodotto del lavoro umano, diventando merce di scambio e fonte di prosperità nei paesi protestanti. Il Seicento fu il secolo nel quale la birra si affermò come bevanda nazionale in Germania, Inghilterra, Danimarca e Olanda, ovvero nei paesi che ne rimarranno anche in seguito i principali produttori.

Suddividere il mondo della birra in categorie non è semplice. La molteplicità degli ingredienti ha dato vita a un numero elevato di quelli che vengono chiamati stili. Un primo orientamento si può riconoscere nel tipo di fermentazione.

Il più antico di tutti è quello basato sulla fermentazione spontanea, alla quale si ricorre per la birra belga prodotta in un’area specifica, dove i lieviti presenti in natura inoculano il mosto senza l’aiuto dell’uomo.
Oggi la gran parte delle birre in commercio al mondo è riconducibile o alla fermentazione alta o a quella bassa.
La prima utilizza lieviti che lavorano meglio a temperature elevate ed è alla base ci sono le ale britanniche, le stout e buona parte delle belghe, abbazia e trappiste incluse. La seconda si è sviluppata grazie alla tecnologia e al maggior controllo delle temperature, che hanno permesso di impiegare lieviti diversi per dare vita alle lager e alle pils.



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La donna e la Famiglia nel Medioevo
Medioevo Storico

La donna e la famiglia



Prefazione

Verso l'XI secolo la concezione della società cristiana non assegna nessun posto specifico alle donne. Si gerarchizzano "ordini" o "condizioni" (cavalieri, chierici, contadini), ma non si prevede per la donna nessuna "condizione femminile" anche se, gli uomini del Medioevo, a lungo hanno concepito "la donna" come una categoria. Solo in seguito hanno fatto intervenire distinzioni sociali ed attività professionali per conferire delle sfumature ai modelli di comportamento che le proponevano. Prima di essere contadina, castellana, santa "la donna" è stata caratterizzata in base al suo corpo od al suo sesso, alle sue relazioni con i gruppi familiari. Sia che esse siano spose, vedove o vergini, la personalità giuridica e l'etica quotidiana è stata disegnata nel rapporto con un uomo od un gruppo di uomini.

Quest'articolo eviterà di contrapporre in una galleria di ritratti, le molteplici figure che le donne, nel corso di mezzo millennio, hanno assunto nella scacchiera sociale. Cercherò di situarle nella cornice che i contemporanei assegnavano loro di primo acchito, nel complesso delle costrizioni che la parentela e la famiglia hanno imposto all'affermazione delle donne, come individui dotati di piena personalità giuridica, morale ed economica.





L'Alleanza matrimoniale.



Nel Medioevo il rapporto dell'alleanza matrimoniale ha, alla sua origine, una "pace". Al termine di un processo di rivalità, a volte di una guerra aperta, tra famiglie, instaura e sigilla una pace. Concedere la mano di una donna al lignaggio con cui ci si riconcilia, pone la sposa al centro dell'intesa. A questo pegno, e strumento di concordia, si assegna un ruolo che oltrepassa il suo destino individuale e le sue aspirazioni personali.

Mantenere l'alleanza fra i due gruppi evitando qualunque comportamento reprensibile,

operare alla perpetuazione del lignaggio in cui entra procreando per esso, assicurargli fedelmente l'uso del suo corpo e dei beni che gli porta: ecco ciò che si impone alla donna con una forza forse maggiore dei doveri verso il marito. Ci sarà bisogno di una lenta maturazione della riflessione, nata negli ambienti ecclesiastici, sui fondamenti dell'unione coniugale, ci vorranno anche sconvolgimenti economici e sociali molto profondi affinché, in questa rete di costrizioni, compaia l'immagine della coppia e perché, in seno alla coppia, si delinei la figura della "buona moglie".

Non mancano gli esempi di matrimoni che, utilizzando le donne, instaurano o restaurano dei legami di amicizia fra due lignaggi. I primi a ricercare simili unioni sono certamente i capi stessi della cristianità: un re di Francia, Enrico I, nel secolo XI, va a cercarsi una sposa nel lontano principato di Kiev, in Russia.

Ad un grado ancor più basso della gerarchia sociale, negli ambienti patrizi cittadini dei secoli XIII – XIV, vecchi odi ed interminabili vendette, si concludono allo stesso modo con uno scambio di donne, mentre, simmetricamente, guerre, private o no, divampano talvolta quando l'unione fallisce. A Firenze, verso il 1300, la parte bianca si amalgama attorno all'unione, conclusa nel 1288, fra un Cerchi ed una Adimari, unione che pose fine ad una vecchia inimicizia, mentre il disaccordo del capo dei Neri con la prima moglie, per l'appunto una Cerchi, e poi il suo secondo matrimonio con una cugina, ricca ereditiera presa nel partito opposto, riaccendono le passioni e la guerra civile.

Qualche anno dopo, nel 1312, un altro fiorentino, Giotto Peruzzi, riporta nel suo Libro Segreto la parte con cui ciascun membro del suo lignaggio deve contribuire al pagamento dell'enorme dote che, sua figlia, porterà agli Adimari, famiglia nemica con cui i Peruzzi hanno concluso una pace solenne. Anche qui, spostata sulla scacchiera di famiglia, la donna garantisce il rispetto dell'accordo; è il simbolo stesso della pace.

Nel contempo si vanno diffondendo le parole di Sant'Agostino, che assimila l'obbligo di sposare persone con cui non si hanno vincoli di parentela, ossia l'ingiunzione di esogamia, alla necessità di garantire il vincolo sociale, di fondare la coesione della società sulla "carità" e l'amore che, due persone unite in matrimonio, si devono a vicenda; le solidarietà del sangue, al contrario, rischiano di mettere gli uni contro gli altri gruppi familiari troppo chiusi in se stessi.

L'aspirazione alla pace, l'obbligo di scambiare delle donne, non hanno le stesse implicazioni per gli uomini di chiesa e per la società laica. I primi escludono qualunque matrimonio tra parenti troppo vicini, mentre la seconda crede che possa, al contrario, rappresentare un incoraggiamento. Il conflitto tra i due atteggiamenti scoppia a proposito dei matrimoni reali e principeschi, alla fine del secolo XI. Con l'andare del tempo la Chiesa mitigherà il suo atteggiamento; nel 1215 il IV Concilio Laterano porta il divieto esogamico dal settimo grado di parentela, al quarto; si potrà ormai sposare la discendenza di un quadrisavolo comune. In compenso, il più umile cristiano non potrà più fingere di ignorare i suoi rapporti di parentela: la Chiesa mette in opera un mezzo per rafforzare il suo controllo sul carattere lecito dell'unione istituendo le pubblicazioni di matrimonio da farsi in precedenza per esser sicuri che "l'incesto" non aspetti al varco i fidanzati poco informati.

Giuramento o promessa di pace, il matrimonio impegna anche lo statuto e l’onore delle famiglie. Che diano, o che ricevano, una donna esse valutano, naturalmente, la considerazione ed i vantaggi materiali che ricaveranno dall’unione. Bisogna notare che la donna data in sposa, spesso, nel medesimo tempo, è soggetta ad un doppio spostamento: un movimento di traslazione, che la porta a casa di suo marito a cui si aggiunge uno spostamento verticale (verso l’alto od il basso della scala sociale). Si è potuto notare che le strategie matrimoniali più correnti nella classe cavalleresca nei secoli XI e XII, o nelle aristocrazie e borghesie cittadine dei secoli XIV e XV portano i padri a scegliere per nuore ragazze di nascita più elevata. Una gran parte, forse la maggioranza delle donne, si trova così declassata dal matrimonio, data a mariti inferiori per sangue o per posizione a cui dovranno, tuttavia, obbedienza.

Il passaggio di una donna da un lignaggio ad un altro non comporta solamente il transfer fisico, ma anche quello di ricchezze. L’onore delle famiglie si muove su due piani. Per essere socialmente riconosciuto il matrimonio esige, in effetti, qualunque sia l’ambiente, l’epoca ed il sistema giuridico in vigore, che dei beni, per piccoli che siano, vengano trasferiti da un gruppo all’altro quando si prepara e poi si realizza la cessione della donna. Durante l’alto Medioevo questi beni erano dati dal marito o dalla sua famiglia a quella della sposa in “compenso” della perdita che questa famiglia subiva cedendo una delle sue figlie. In seguito sono dati alla sposa stessa che, come contropartita, continua a portare in casa del marito effetti, beni immobili, somme di denaro che concede allo sposo o restano in suo possesso. Così sarà assicurato il suo mantenimento dopo la morte del marito. Ma l’intento riposto di tali scambi di prestazioni e controprestazioni, sta in altro: essi tendono a legare molto saldamente le due famiglie impegnate nel gioco di doni e di ricambi che, sapientemente graduati, significano la loro amicizia, mentre, al tempo stesso, specificano le loro rispettive posizioni sociali.

A partire dal secolo XII la dote portata dalla donna si accresce od assume un po’ alla volta più consistenza rispetto alla dote maritale od ai doni e gli apporti del marito; alcuni di questi ultimi sono anche soppressi d’autorità, come la “tertia” (che era il diritto della vedova sul terzo dei beni del marito) abolita nel 1143.

Le ragioni di una tale “espropriazione” ai danni delle donne sono complesse. Spesso si accampa come motivo che, la feudalizzazione dei rapporti con la terra, esclude le donne dalla trasmissione dei beni, castelli e feudi. Negli ambienti cittadini, che vivono di commercio e di artigianato, la chiusura corporativista dei mestieri riserva attività e responsabilità ad individui di sesso maschile. Il fatto di ricevere una dote consente di privarle dell’eredità, del patrimonio vero e proprio: esse vi rinunciano in favore dei fratelli e, una volta maritate, abbandonano il controllo attivo su beni che, teoricamente, sono di loro proprietà. Con molte varianti legate alla ragione od alla consuetudine, il senso dell’evoluzione è un po’ dappertutto lo stesso: le donne sono molto meno padrone delle ricchezze, alla fine del Medioevo, di quanto non lo fossero in epoche più antiche. Il deteriorarsi della loro funzione economica e della loro capacità di amministrare la propria fortuna non manca di tradursi in un “deprezzamento” del loro “valore”. La misoginia, che impregna tanti testi nei tre ultimi secoli del Medioevo, ha certo ben altre ragioni che il declino della loro posizione patrimoniale e giuridica. Tuttavia, causa ed effetto ad un tempo di questo clima ostile, il rifiuto di lasciare accede le donne alla libera disposizione dei beni registrati a loro nome, la limitazione perfino delle ricchezze che potevano ricevere, hanno contribuito alla diffusione dei luoghi comuni sfavorevoli a loro riguardo ed alla generalizzazione di atteggiamenti convenzionali piuttosto diffidenti e negativi.

In buona parte dell’Europa urbanizzata le famiglie si lasciano trascinare, alla fine del Medioevo, in una vera e propria spirale inflazionistica delle doti, fonte di nuove recriminazioni maschili. Se le famiglie cedono a quest’andazzo, di cui fanno ricadere la responsabilità sull’avidità e la vanità femminile, è perché la dote, e le altre prestazioni legate al matrimonio, permettono loro di affermare la propria posizione sociale e di ottenere il riconoscimento di questo statuto dalla collettività. Per le donne, accompagnate ad uno sposo da una dote spesso senza speranza di una contropartita, la conseguenza di questa evoluzione, in termini mercantili, è che maritarle costa molto caro. Quest’investimento, senza compenso, non raddolcisce lo sguardo dei maschi della famiglia che devono provvedere alla loro sorte. Ad ogni unione si paga l’onore delle famiglie; ma, senza esagerare, si può dire che, gli uomini impegnati alla ricerca di quest’onore, hanno fatto pagare alle donne un duro prezzo.

Quest’onore, d’altra parte, non risiede soltanto nella potenza materiale e nel prestigio del lignaggio: ha una forte componente sessuale e dipende anche dal comportamento delle donne, attraverso cui il rapporto di affinità si realizza. Mentre si afferma il principio di successione in linea maschile, viene anche ripresa la discussione delle teorie mediche ereditate dall’Antichità sul carattere, attivo o passivo, della funzione femminile nella concezione. Per molti, il “sangue paterno” deve mantenere tutta la sua purezza nella donna fecondata, che si limita a portare a maturazione ed a modellare il bambino. Ogni buon lignaggio teme che un sangue estraneo s’introduca in lui a sua insaputa. I figli di un uomo nati al di fuori del matrimonio inceppano, certo, il delicato meccanismo delle eredità; ma sono ben individuabili. I figli adulterini di una moglie, tanto più pericolosi quanto più la loro madre sa nascondere il “delitto”, sono nati da una frode e, quando sopravvivono, incorrono nel doppio biasimo di essere nati dal peccato della carne e del tradimento della madre verso la famiglia in cui è entrata. La fedeltà sessuale delle donne è proprio al centro del dispositivo familiare: il loro corpo richiede una sorveglianza impeccabile per evitare delle azioni fraudolente che danneggerebbero il gran corpo del lignaggio.


Il matrimonio e la fecondità della coppia



Le donne maritate, sistemate nella scomoda situazione di unioni spesso disuguali, devono lealtà e devozione agl’interessi delle due famiglie che, per loro mezzo, si sono imparentate. Simili esigenze possono entrare in conflitto con l’affetto e l’obbedienza che devono anche al marito, dato che intervengono qui le idee che la gente di chiesa si fa dell’accordo coniugale. Verso la fine del Medioevo, la coscienza che prendono i laici intacca l’obbedienza al lignaggio.

Finché è ragazza, si chiede alla donna di obbedire senza fiatare al padre, al fratello od al tutore, tacendo le intime aspirazioni per accettare l’uomo che le hanno scelto. Ma la Chiesa interviene per dissuadere dallo sposare una cugina, insiste anche, con voce sempre più ferma dalla fine del secolo XI in poi, sulla necessità di ottenere in buona e debita forma il consenso dei giovani sposi e di non farli sposare ad un’età in cui il loro consenso non avrebbe alcun valore. Per lei, la fondazione di una nuova famiglia può aver luogo solo nel rispetto della libertà dei contraenti che, in primo luogo, non sono i lignaggi ma futuri sposi. Questo spostamento del punto di vista determina, almeno in teoria, una notevole rivoluzione: accorda alla donna lo stesso posto del marito nella somministrazione del sacramento matrimoniale.

Generare dei buoni eredi: ecco la grande sfida che le famiglie devono raccogliere in un’epoca in cui la morte colpisce duramente e spesso. Il cuore della casa medievale è la camera, dove la donna se ne sta, lavora, concepisce, partorisce, e dove morirà.

La chiave che immette la donna nel ruolo di genitrice è il matrimonio. Si ha l’impressione che, durante l’Alto Medioevo, l’età degli sposi alle loro prime nozze fosse molto simile; fa eccezione, senza dubbio, l’aristocrazia, in cui le ragazze venivano maritate in età molto tenera. Nel periodo centrale del Medioevo si verifica senz’altro un rovesciamento; da un capo all’altro dell’Europa: le ragazze, appena adolescenti, vengono date ad un marito decisamente maggiore d’età. In Fiandra o in Inghilterra, in Italia, nella Francia del 1200, l’aristocrazia ed il patriziato cittadino maritano le figlie appena raggiunta l’età dello sviluppo. Un’età che varia tra i dodici ed i tredici anni (età che, secondo il diritto canonico, consente d’impegnarsi nel vincolo matrimoniale o di pronunciare dei voti monastici), torna sotto la penna degli agiografi delle sante che, è vero, sono nella grande maggioranza nate da buone famiglie. Più rare sono, prima del secolo XIV, le informazioni relative al matrimonio nelle classi rurali e popolari, anche se parrebbe che, anche in queste, l’età delle ragazze al loro primo matrimonio fosse di rado al di sopra dei diciassette o diciotto anni, nonostante la pressione demografica spingesse a ritardare un poco il matrimonio.

Dalla fine del secolo XII in poi, gli uomini, per parte loro, sembrano farsi prendere nella “rete del matrimonio” ad un’età più avanzata di prima. I rampolli della classe cavalleresca ne danno l’esempio, aspettando di essere installati in un feudo, di avere ereditato o scovato l’ereditiera che permetterà loro di sistemarsi. Le informazioni sono ugualmente rare sugli usi seguiti nelle altre classi prima del secolo XIV.

L’informazione si fa più ricca dopo la peste nera, nella seconda metà del secolo XIV e nel secolo XV. Censimenti più frequenti, che troppo di rado presentano la ricchezza e l’omogeneità dei “catasti” fiorentini del secolo XV, lasciano tuttavia capire qual è l’età media matrimoniale. Per le donne è inferiore a diciotto anni, con una tendenza fra i contadini ed il proletariato urbano, ad aumentarla di uno o due anni e, presso i ricchi, a portarla verso i quindici anni. La letteratura familiare dei diari, soprattutto toscani, permette infine di calcolare con certezza l’età matrimoniale femminile: nella borghesia fiorentina, tra il 1340 e il 1530, circa 136 giovani spose si sono maritate ad un’età media di 17,2 anni. Le variazioni su questo lungo periodo sono modeste, anche se è sensibile la tendenza a ritardare un poco le nozze: verso il 1500 le Fiorentine, in media, si maritano un anno dopo rispetto a quel che avveniva prima del Quattrocento.

Calcoli analoghi, eseguiti su un gruppo, altrettanto consistente di giovanotti, provenienti dalle stesse famiglie di borghesia mercantile, ce li presentano di un’età media superiore ai ventisette anni al momento della celebrazione delle loro prime nozze. Quest’età subisce oscillazioni più marcate di quella delle ragazze: per esempio, dopo le crisi di mortalità, si abbassa, e nell’ultimo terzo del secolo XV segue una curva opposta a quelle delle donne. Tuttavia il fatto importante è che una buona decina d’anni, quasi costantemente, separa i due sessi.

Un uomo che si avvicina ai trent’anni, un adulto, porta dunque nella sua casa un’adolescente: questa è la situazione asimmetrica del Basso Medioevo, una situazione che ricorda stranamente i costumi romani dell’età classica. Dalla lettura moralistica e nei trattati di economia domestica riemergono ammonimenti direttamente ispirati alla Politica di Aristotele od all’Encomio di Senofonte. Razionalizzando le pratiche del loro ambiente e del loro tempo uomini come L. B. Alberti nei suoi Libri della famiglia, erigono a modello i fatti: l’uomo aspetterà di aver raggiunto la pienezza dell’età perfetta prima di maritarsi, la donna, al contrario, sarà data giovane fanciulla, ad uno sposo, perché non abbia a “pervertirsi” nell’attesa del matrimonio: <>. Alcuni deplorano un’evoluzione che che giudicano e che ha portato i contemporanei a cedere le figlie ad età sempre più precoce. Tutti convengono, tuttavia, nell’affermare che, per meglio imporre la propria autorità in famiglia e generare figli più belli, l’uomo troverà un vantaggio nel ritardare il momento delle nozze. Un’età ritardata per il matrimonio (che continuerà a caratterizzare la popolazione dell’Europa occidentale nell’epoca moderna) sembra dunque, tra il Duecento ed il Quattrocento, al tempo stesso la pratica e la norma della sola parte maschile.

La proporzione di prime nascite, quasi inesistente, avvenute nelle famiglie fiorentine prima dell’ottavo mese successivo al matrimonio, sta ad indicare il rigore della sorveglianza esercitata, dalle famiglie, su queste ragazze giovanissime, che, talvolta, vedevano il promesso sposo solo il giorno in cui dovevano ricevere l’anello nuziale. Ma, simmetricamente, lo scarto relativamente pronunciato fra le nozze e la prima nascita dimostra che questi adolescenti non avevano certo raggiunto una maturità fisiologica sufficiente per restare subito incinte, il che non impediva del resto ai mariti di iniziarle alle vita coniugale. Ma, dopo il primo bambino, gravidanze e nascite si tenevano dietro con ritmo accelerato. Così a ventinove anni, nel 1461, una borghese di Arras restò vedova dopo aver messo al mondo dodici figli in tredici anni di matrimonio. Nulla di straordinario in questo: i rari diari francesi e le numerose “ricordanze” italiane portano, fra il Trecento ed il Quattrocento, numerosissimi esempi di questa fecondità molto spiccata che caratterizzava, almeno, le donne degli ambienti agiati.

Una Fiorentina di buona famiglia, che si fosse sposata a diciassette anni e che non avesse perduto il marito prima dell’età della menopausa, avrebbe potuto mettere al mondo una media di dieci figli prima di raggiungere i trentasette anni, ossia un figlio in più delle contadine francesi dell’epoca moderna, che si sposavano tra i sette ed i dieci anni più tardi delle italiane di città. Maritare sistematicamente le ragazze molto giovani ha, dunque, un sensibile effetto sul livello complessivo della fecondità e sul numero totale delle nascite. Le famiglie cercavano più o meno consapevolmente, abbassando l’età matrimoniale, di colmare le terribili brecce aperte dalla mortalità dell’epoca.

Tuttavia le loro speranze erano piuttosto fragili, perché, anche nelle famiglie protette come quelle della borghesia di una delle più ricche città d’Europa, molte unioni erano prematuramente spezzate, ed il numero dei figli procreati inferiore alla decina, indicata per le coppie dotate di longevità. In complesso, le coppie fiorentine, colpite o no dalla morte prematura di uno dei coniugi, mettevano al mondo una media di sette figli; cifra ancora notevole, ma in questa discendenza rapidamente decimata, pochi sopravvivevano ai genitori.

Importante è sottolineare che le gravidanze occupavano circa la metà della vita delle donne maritate prima della quarantina. In alcune famiglie di notabili del Limousin francese, anch’esse ben note attraverso i loro diari, l’intervallo medio tra due nascite è di circa ventuno mesi. E questa è anche la media fiorentina calcolata su 700 nascite in famiglie così agiate. Cade anche al di sotto dei diciotto mesi se si eliminano gli scarti eccezionali dovuti all’assenza del marito per ragioni d’affari, o se si considerano le sole coppie che percorrono tutto l’arco della loro fertilità naturale. Nel caso fiorentino le concezioni si succedevano più rapidamente che non due o tre secoli dopo. Praticamente ciò significa che la gestazione conclusa col parto e con la purificazione, costituiva condizione abituale di una donna, nove mesi su diciotto.

Altra conseguenza: per metà della sua vita coniugale, in teoria, la coppia non avrebbe dovuto avere rapporti per paura di danneggiare il feto, per lo meno a partire dal momento in cui questo si muoveva: violare questa regola non era forse più di un peccato veniale, dal tempo di Alberto Magno in poi, verso la metà del Duecento; tuttavia era pur sempre peccato. Se la madre allattava, la coppia avrebbe dovuto comunque astenersi, perché la nascita di un altro bambino rischiava di abbreviare l’allattamento, e dunque la vita, del fratello maggiore. Le coppie, però, rispettavano ancora queste proibizioni antichissime? E’ difficile giudicare. I contemporanei richiamano talvolta degli antichi tabù, che sembrano ancora agire ma che riguardano piuttosto il pericolo dei rapporti sessuali durante i cicli femminili: il grande predicatore Bernardino da Siena (vedi nota 1) ed il mercante Paolo da Certaldo ricordano che, l’uno alle donne e l’altro agli uomini, <>, figli <>, >>e mai la creatura generata in tal tempo, non è senza grande e notabile difetto>>; la macchia ricadrà sul padre che non ha rispettatoli divieto: <>.

L’obbedienza ai divieti religiosi è più evidente, e più direttamente misurabile, in ciò che concerne l’osservanza dei <>, cioè l’Avvento e la Quaresima, in cui la Chiesa proibiva di celebrare le nozze e raccomandava, senza farne un obbligo, la continenza. In Toscana, si possono constatare dei vuoti significativi nella curva delle nozze di dicembre ed in marzo, ed una diminuzione delle concezioni in tempo di Quaresima. Perlomeno presso la gente di città, buon bersaglio dei predicatori, le ingiunzioni della Chiesa venivano, dunque, ascoltate.

Le coppie Medievali suggeriscono, infine, che non cercavano di evitare di concepire ricorrendo ai diversi mezzi (pozione abortive, unguenti, preservativi, incantesimi) a cui, secondo i loro clienti ed i loro giudici, facevano appello prostitute e donne accusate di magia e di stregoneria. Tutti i Concili, dall’Alto Medioevo al secolo XII, hanno rafforzato senza posa divieti e le pene che colpivano i comportamenti indirizzati a prevenire o sopprimere una nascita. A partire dal secolo XIII, la conoscenza dei trattati di medicina arabi hanno forse diffuso in certi ambienti delle pratiche contraccettive; in ogni caso la loro discussione porta i teologi ad attenuare un poco la severità delle proibizioni. Certi non vietano più l’unione di una coppia sterile, od ammettono il coitus reservatus: una coppia può dunque ricercare il piacere e non solo la procreazione. Altri non assimilano più la contraccezione all’infanticidio. Tuttavia, sino alla fine del Medioevo, i predicatori tornano costantemente sul peccato mortale di un’unione sessuale <>, che va contro <>. Bernardino precisa, rivolgendosi alle sue uditrici:

<< Ode: ogni volta che usano insieme per modo che non si potrebbe ingenerare; ogni volta è peccato mortale. Alla chiara, te l’ ho detto. […] Peggio fa costui ad usare in tal modo, che colla madre propria col debito modo […]. E però, o donna, impara questo stamane, e legatelo al dito: se tuo marito ti richiede di nulla che sia peccati conto natura, non li consentire mai>>. Il solo caso in cui la donna può e deve infrangere il suo dovere d’obbedienza verso il marito, sia pure a rischio della vita, si verifica quando egli le impone nell’unione carnale una posizione che <>, facendo sì che la donna <>, e le impedisce di concepire.

Sodomitiche o no le pratiche, <> degli sposi cristiani, sono combattute da questi direttori di coscienza, perché attribuiscono ad esse fini contraccettivi. Non pare, tuttavia, che tali rapporti abbiano avuto un’incidenza percettibile sulla fecondità delle coppie del tempo! Gl’intervalli medi tra le nascite restano molto costanti fino al penultimo figlio, il che dimostra che i coniugi non cercavano di sottrarsi in misura molta consistente, con un artificio o con l‘altro, al loro dovere di procreare.
C’è un mezzo perfettamente naturale e legittimo di rallentare il ritmo delle nascite: lasciare che la madre allatti il suo poppante. Ora, negli ultimi secoli del Medioevo, la nutrice, personaggio familiare delle chansons de geste e dei romanzi cortesi, non è più privilegio dei signori. Nel secolo XIV, le famiglie patrizie di Firenze ospitano abitualmente una nutrice e, nel secolo seguente, si generalizza in tutta la media borghesia l’uso di ricorrere ai servigi di una donna che sta in campagna. Doppia conseguenza: le donne povere che allattavano a lungo il proprio bambino, quando questi moriva, davano latte dietro compenso; così guadagnavano, oltre ad un salario, la possibilità di ritardare una nuova nascita. I ricchi, i possidenti in cerca di eredi che, al contrario, valorizzano le famiglie prolifiche e la fecondità delle loro donne, possono ravvicinare le nascite dei figli e, dunque, moltiplicarli. Del resto è proprio sotto i tetti dei più facoltosi che, all’inizio del Quattrocento, si censiscono in Toscana le più alte percentuali di bambini. Il letto della miseria è meno fecondo, allora, di quello dei potenti.
Punteggiata di nascite, la vita feconda di una donna adulta sposata prima dei diciotto anni, si conclude una ventina d’anni più tardi. Tuttavia, di tutti i figli che ha messo al mondo, pochi sono presenti sotto il tetto paterno. La maternità medievale è una sorta di linea punteggiata. Le madri, che danno a balia fuori di casa i loro piccoli subito dopo il battesimo, non li recuperano, se sono sopravvissuti, se non un anno e mezzo o due anni dopo. Nell’intervallo, qualcuno dei fratelli maggiori avrà potuto soccombere alle malattie od epidemie di peste che dissanguano periodicamente la popolazione. Le enormi discendenze (dieci, quindici figli) restano sulla carta degli storici della demografia. Nel quotidiano succedersi delle nascite e delle morti, le case della fine del Medioevo ospitano in media poco più di due figli viventi, come fanno vedere i censimenti, ei sopravvissuti che il padre o la madre mettono nel loro testamento, di rado sono al di sopra di questo magro bilancio.
I diari lasciano vedere che, nella classe mercantile, almeno un quarto dei piccoli Fiorentini dati a balia, muore presso la nutrice. Ma c’è di peggio: il 45 per cento dei figli messi al mondo in queste famiglie facoltose, non raggiungono i vent’anni. La morte minaccia allora una nuova vita e spia la madre che la dà alla luce. Le partorienti muoiono, forse, più di rado di quanto di quanto spesso non si dica durante il parto. Tuttavia, anche le donne ricche, attraversano uno dei momenti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli fiorentine che muoiono prima del marito soccombe mettendo al mondo un bambino o muore per le conseguenze immediate del parto.
Il fardello delle gravidanze e dei parti sbocca così, solo una volta su due, sulla speranza di portare il bambino all’età adulta. Si capisce l’accento di rassegnazione cristiana dietro cui si trincerano i genitori che perdevano una volta di più un bambino, una rassegnazione che, per la mentalità dei nostri giorni, ci spinge ad accusarli, un po’ frettolosamente di insensibilità. Certo che, l’invio dei poppanti subito dopo la nascita presso una balia lontana, non favoriva lo sbocciare del sentimento materno o dell’interesse paterno: la notizia della loro morte, non squarciava quel tessuto affettivo che crea la quotidiana osservazione dello sviluppo del bambino. e di cui testimonia, spesso con forza, il dolore del padre quando il bambino che vive in casa viene a mancare.
Al di fuori di certi ambienti privilegiati, che sanno esprimere le loro speranze e le loro pene, le testimonianze dirette sui rapporti tra genitori e figli sono rare. Nella stragrande maggioranza della popolazione le madri allattano i loro neonati; tuttavia, numerose sono quelle che si trovano costrette dalla miseria, dalla malattia, dalla pubblica disapprovazione, ad abbandonare, più o meno in fretta, il loro bambino. Il rifiuto del neonato sembra una pratica molto diffusa per lo meno nelle città. La alimentano le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e la povertà, cronica o legata a crisi di sussistenza: i miserabili lasciano all’ospizio delle città i loro figli legittimi, cullandosi talvolta, nella speranza che li riprenderanno più tardi e che l’ospizio potrà salvarli dalla morte meglio di quanto non potrebbero loro. Tuttavia la mortalità è terribile nei primi ospizi specializzati, come quello degl’Innocenti di Firenze. Abbandonare un bambino significa senz’altro moltiplicare le sue probabilità di morire presto, anche se c’è nei genitori la speranza che, rimettendo a Dio ed alle anime caritatevoli la salute terrestre del piccino, questi possa vivere più a lungo sulla terra e garantirsi la vita eterna nell’aldilà. Fra i trovatelli, i bambini di sesso femminile sono più numerosi: esiste una discriminazione che, fin dalla nascita, accorda un leggero vantaggio ai maschi. Ma è difficile capire le motivazioni inconsapevoli, mai spiegate dai biglietti attaccati ai cenci del bambino, che spingono la madre od i genitori a privilegiare i maschi.
Se nascite, accolte a malincuore, incitano numerosi genitori a rinunciare ai loro compiti educativi, la necessità di allattare mette, anche, alla prova il loro senso di responsabilità verso i neonati. Come si è visto, i dottori della Chiesa esortano i genitori alla continenza nel periodo dell’allattamento. Il Clero mette l’accento anche su un altro aspetto delle responsabilità dei genitori. Lottando con vero accanimento, a partire dal secolo XV, contro l’”oppressione” dei poppanti, soffocati nel letto dai loro genitori o dalla balia, ripetendo ai genitori che essi sono allora colpevoli di un delitto di negligenza e, persino, sospetti di premeditazione, curati e confessori hanno, evidentemente, risvegliato presso i laici, che consideravano questi accidenti con indulgenza o con disinvoltura, la preoccupazione salutare della sopravvivenza del piccino.
Insomma, la fine del Medioevo vede lentamente maturare delle prese di coscienza che, molto più tardi, renderanno possibili i primi veri comportamenti anticoncezionali. L’aspetto paradossale sta nel fatto che, all’origine di questo risveglio della responsabilità dei genitori che, dopo il Seicento, li porterà a distanziare le nascite, ci sia il rispetto assoluto della vita, predicato dai più decisi avversari di qualunque pratica che impedisse la comparsa.



Tra moglie e marito


Tra le tante prescrizioni, e proibizioni sessuali, che pretendono di inquadrare i rapporti fra uomini e donne fino in seno alla coppia, le persone sposate della fine del Medioevo tengono conto soprattutto dell’appello alla moderazione, che le “autorità” mediche raccomandano, anch’esse fin dall’Antichità, a chi vuole una discendenza sana e numerosa. Questo non significa che ogni matrimonio sia stato dettato dalla riflessione, e che ogni moto passionale sia stato bandito dalla <>. Ma l’ideale del buon matrimonio, che la letteratura morale o satirica tende ad imporre ai tre ultimi secoli del Medioevo, deplora gli eccessivi ardori, l’intemperanza dei desideri, assimilati ad un ingordigia alimentare che distruggerebbe l’equilibrio interno degli umori. <>: questo consiglio di un Fiorentino ai suoi figli eviterà loro di <<[guastarsi] lo stomaco e le reni>>, di avere solo figlie oppure figli <>, di vivere lui stesso <>.
Il “buon uso” delle mogli vuole, in effetti, che si diffidi costantemente delle loro esigenze. Il loro corpo, così necessario alla sopravvivenza dei lignaggi, è sottomesso ad una natura troppo incostante. Mal governato dalla ragione incompleta che è tipica delle donne, questo corpo esige dal suo “signore”, il marito, una soddisfazione prudente e regolare degli appetiti senza che il marito stesso si abbandoni alla vertigine dei sensi; il che rovinerebbe la sua autorità…..
L’autorità: ecco un’altra “parola-chiave” che domina la visione maschile dei rapporti tra coniugi (la sola che ci stata tramandata direttamente). Prima creazione, immagine di Dio più vicina all’originale, natura più perfetta e più forte, l’uomo deve dominare la donna. Questi temi, ripetuti con insistenza, trovano la loro applicazione nel campo chiuso della vita familiare. Giustificano, con la subordinazione femminile, la divisione dei compiti che ne deriva. L’uomo ha una “naturale” autorità sulla moglie. Base teorica della riflessione di numerosissimi trattati dal secolo XIII in poi, la debolezza ed inferiorità della natura femminile impongono, fin dall’Antichità, che il campo, in cui le donne dispongano di una certa autonomia, sia ben circoscritto.
Questo campo è in primo luogo la casa, spazio ad un tempo protetto e chiuso e, nella casa, certi spazi più segreti: la camera, la stanza da lavoro, la cucina (a volte isolata in certe regioni) collocata in sommità od a lato della casa. Introdurvi la novella sposa comporta, sempre, certi riti che sanzionano la sua ammissione, ma che anche la tagliano fuori dal mondo esterno. La fragilità e la debolezza della donna esigono protezione e sorveglianza. I suoi andirivieni all’esterno devono limitarsi a percorsi ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubblico o fontana, luoghi che variano a seconda della condizione sociale, ma esattamente delineati. Luoghi, anche, che suscitano curiosità ed angoscia negli uomini, i quali hanno l’impressione che, le parole che vi circolino, possano sfuggire alla loro sorveglianza. Ne sono testimoni alcuni testi francesi nei quali si manifesta, a briglia sciolta, la temibile saggezza delle comari riunite che, spesso provocano lo sbigottimento e la disapprovazione dei mariti quando cicalecciano, circondando una partoriente; quando partono insieme in pellegrinaggio, complottando la loro rovina.
Dunque, tenere ed occupare le donne in casa, ecco l’ideale maschile diffuso. Ne è pieno l’orientamento dei compiti che si assegnano ad esse. Quando i mariti, <>, devono ammassare fuori casa beni e ricchezze, i luoghi comuni della letteratura medievale d’economia domestica attribuiscono alle loro compagne la cura di conservare e trasformare per il consumo familiare, in proporzione ai bisogni, i prodotti che essi incamerano. La gestione quotidiana delle provviste, la sorveglianza e la previsione del loro impiego, le cure che preparano al loro uso, sono altrettante attività in cui possono dispiegarsi i talenti che si attribuiscono alle donne, quando sono opportunamente incanalati dalla loro docilità e ponderazione. Una buona moglie, una donna accorta, dolce e temperante, saprà regolare la circolazione interna dei beni che, per opera dell’uomo, affluiranno all’esterno verso la casa.
Ingranaggi essenziali del buon funzionamento sociale, le donne, che assumono pienamente la loro funzione, garantiscono l’armoniosa assimilazione dei prodotti dell’industria maschile. Qualunque eccesso nelle loro spese danneggia l’intero corpo sociale ed il complesso degli scambi. Così le leggi suntuarie (vedi nota 2) che vegliano a preservare le manifestazioni dell’ordine sociale, infieriscono contro gli scarti femminili. Vanagloria, ingordigia, lussuria, sono tutti peccati che traggono alimento da un disordine degli appetiti che la vita domestica animata dalle donne dovrebbe, al contrario, regolare ed arginare.
La “famiglia” è anche tutto un complesso di persone su cui la moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le attività. In primo luogo il marito, che conta di trovare, nel calore del focolare, il riposo ed i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del letto pronto (quando torna esausto dalle sue tribolazioni legate alla vita fuori di casa); poi i servitori, quando la famiglia è abbastanza agiata da averne. La sposa ha la missione di dirigerli e di punirli quando il loro comportamento rischia di danneggiare gl’interessi dei padroni; in poche parole, deve farli cooperare all’onore della casa. I bambini, inoltre, la cui prima educazione le spetta senza discussione; un’educazione che trova un incentivo nel suo esempio e nella sua “pietà”, molto più che nella sua attitudine ad avviarli ai rudimenti della lettura. La sposa deve assicurare la coesistenza pacifica di tutti questi individui, ognuno con i propri bisogni: è lei la signora dell’ordine domestico, della pace familiare.
La pace, in effetti, dovrebbe fare della sua casa un riflesso dell’armonia del mondo se….se la natura femminile, a dispetto delle briglie che le s’impongono, dei sermoni che le si indirizzano, non venisse subdolamente a turbare ciò che sarebbe stato suo compito promuovere. Le donne (così pensavano i dottori e chierici, del tempo) sono in grado eminente false, volubili ed ingannatrici, e <>. Il rimprovero maschile, ripetuto in forma ossessiva, ha la radice nel senso sempre di essere messi nel sacco da loro. La loro chiacchiera riempie la calma della casa, ne fa trapelare i segreti al di fuori; aiutato dalla loro folle ed egocentrica prodigalità il loro spirito litigioso disperde tra mille preoccupazioni trascurabilissime la più solida ragione maschile. Tutte queste forme di vituperio derivano da un profondo senso di fallimento in confronto alle illusioni di stabilità ed autorità domestica, tanto agognate dagli uomini del tempo.
L’insubordinazione delle donne, del resto, non è solo oggetto del biasimo dei mariti; incorre anche nella sanzione collettiva. Le infrazioni dell’ordine normale delle cose ed il voler rivoltare troppo l’autorità naturale, sono passibili di un giudizio e di un castigo simbolico imposto dalla comunità. Dall’inizio del Trecento, le prime menzioni di scampanate rituali arrestano questo controllo pubblico sulle scelte matrimoniali; il secondo matrimonio delle vedove o, più generalmente, le unioni multiple di uno stesso individuo, attirano così le folgori dei giovani su coppie, giudicate male assortite od intemperanti. Attraverso tutta l’Europa, soprattutto il rito della cavalcata dell’asino, viene a punire il troppo “rovesciamento” dei ruoli coniugali: se la donna domina il marito, lo strapazza e lo mena per il naso, lo sposo, o chi ne fa le veci, dovrà percorrere lo spazio del villaggio, seduto alla rovescia sulla derisoria cavalcatura, tenendone la coda. L’insubordinazione della donna mette in pericolo l’ordine stesso del mondo e suscita quei riti in cui la redenzione passa attraverso lo scherno. Non c’è sfera privata, in cui gli individui regolino i loro contrasti, senza dover fare i conti con l’intervento di censori esterni.
La mancanza di docilità o la doppiezza dei figli, in compenso, non suscitano gli stessi interventi della comunità. Il fatto, che i figli mettano in dubbio il potere del padre, offre materia di tragedia piuttosto che di scherno e, questa situazione, provocherà il consiglio degli “amici” o della parentela, senza dare agli estranei il diritto di ficcare il naso negli affari di famiglia che implicano, naturalmente, dei problemi d’eredità.
La morale dei fabliaux (vedi nota 3) dedicati ai problemi generazionali ha una tonalità molto cupa, ben diversa dalle novelle tra dolci ed amare o licenziose che narrano come la donna copra di ridicolo l’uomo. Al padre che si disfà troppo presto dei suoi beni, e quindi della sua autorità, in favore dei figli, il novelliere ripete che <>, oppure che <>.




La donna e i suoi lavori

La donna, tuttavia, dall’alto od in basso della scala sociale, non resta così confinata e sottomessa allo sposo quanto desidererebbero i mariti ed i teorici della <>. Le contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito che, talvolta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o borghese che sia, non si lasciano in ozio figlie e moglie.
Gli educatori rivelano l’utilità dei lavori d’ago, o di fuso, che dovrebbero sempre occupare il tempo in cui la donna non ha altre faccende da sbrigare. Questi lavori hanno il compito di immobilizzare il corpo femminile, di intorpidire i pensieri della donna, evitando che essa non si perda in fantasticherie pericolose per il suo onore e per quello della casa. Fin dalla più tenera età le donne fileranno, tesseranno, cuciranno e ricameranno senza posa; e, quanto migliori saranno le loro origini, quanto più esse saranno dotate di onore tanto meno tempo si accorderà loro per giocare, ridere e danzare. Pertanto anche le ragazze della nobiltà occupano le loro mani e la loro “pazza” mente, nei delicati ricami di pianete( vedi nota 4) o di paliotti (vedi nota 5); ci guadagnano, per lo meno, in anni di purgatorio: il compenso per il loro interminabile lavoro. Per giustificarlo, si dice che il padre deve provvederle di un’arte che consenta loro di sopravvivere se cadessero in povertà; tuttavia, la preoccupazione che più profonda che affiora, nei testi degli educatori, è quella di neutralizzare la natura femminile instabile e fragile, costringendola in un’attività senza fine. Secondo Francesco da Barberino (vedi nota 6), che scrive una specie di trattato di educazione delle donne all’inizio del Trecento, la figlia d’un <> dovrà imparare a <>.
Quest’incessante attività tessile ha certo ugualmente una funzione economica. Risponde alle necessità del consumo domestico; ed è anche volta verso la ricerca di guadagni che vengono dal di fuori. Molti, tra i poveri, cercano di equilibrare il loro magro bilancio col prodotto dei lavori femminili o coi salari delle donne che lavorano in filanda.
Molte donne esercitano, soprattutto priam delle crisi del Trecento, un’attività più autonoma, fuori della famiglia. Per la maggior parte la necessità di lavorare è direttamente collegata con la loro condizione matrimoniale o con la perdita della protezione familiare. Per mettere insieme la dote od il corredo, le figlie delle famiglie povere vanno a servizio, talvolta, ancora bambine, più spesso adolescenti. Vanno a costituire il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le vedove, troppo spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido declassamento per cui precipitano nella povertà quando non possono ottenere dagli eredi del marito il rispetto dei loro diritti. Qui il parentado non è l’ultimo a spogliare la vedova e l’orfano. <>, lamenta in una ballata celebre la prima donna che sia vissuta della sua penna, Christine de Pisan (vedi nota 7), rimasta vedova a venticinque anni con tre bambini. Seguendo il suo esempio, i romanzi medievali abbondano di cupi destini di donne sole che devono sopravvivere nelle situazioni più avventurose; ma, del resto, vengono rappresentate del tutto capaci di trarsi d’impaccio.
Sono donne senza famiglia quelle, che si collocano fuori dell’ordine “naturale” assegnato al sesso femminile dalla società medievale. Tanto più vulnerabili perciò, e la loro reputazione è senz’altro macchiata. Vedove isolate, indigenti che si guadagnano il pane filando, domestiche, recluse che vivono fuori di una comunità religiosa, tutte sono presto sospettate di cattiva condotta e facilmente accusate di prostituzione. Le donne senza radici che, nel secolo XI, seguono dei sant’uomini come Robert d’Arbrissel, fondatore di un monastero <> di cui affida la direzione ad una donna, quelle che ne Trecento si aggregano alle compagnie di flagellanti, si reclutano nelle legioni di coloro che la situazione matrimoniale, il genere di vita e, talvolta, l’indipendenza economica bastano a designare come elementi al margine.




Conclusione


Il discredito in cui sono tenuti il lavoro fuori casa, le manifestazioni troppo autonome della devozione, l’andare errando delle donne mostrano, con evidenza, che le società della fine del Medioevo hanno concepito con difficoltà la “condizione femminile” al di fuori del quadro matrimoniale. Senza dubbio la coppia ha acquistato, in questo periodo, una certa autonomia all’interno dei gruppi di parentela: ma vizi e virtù, macchie e comportamenti femminili sono stati visti in rapporto alla famiglia di cui la coppia diventa il fondamento. Le donne sono rimaste un ingranaggio subordinato alla riproduzione familiare. Tuttavia, senza essere negata, questa subordinazione si è trovata più spesso ad essere giustificata, spiegata, per dirla in breve, discussa. Non è stata più del tutto una cosa pacifica.
Naturalmente anche queste mie parole saranno discusse nel Regno e nel Forun del Regno ma, sappiate, che questa è la fotografia, più o meno sfocata, della condizione femminile durante il Medioevo ed, inoltre, è solo un piccolo cammeo nell’immenso oceano delle disquisizioni su di esso. Ai giorni nostri tutto, o quasi, di quello che si è letto in quest’articolo non sarebbe più nemmeno lontanamente pensabile, ma tra il secolo XI e XIV secolo queste erano le “leggi” che regolavano i rapporti fra le donne e la società del tempo.


Note del Redattore


Nota 1
Bernardino da Siena (santo; Massa Marittima, Grosseto 1380 - L'Aquila 1444), appartenente alla nobile famiglia senese degli Albizzeschi, entrò a 22 anni tra i frati minori. Abilitato alla predicazione (1405), continuò tale attività fino alla morte, dapprima in Toscana poi in tutta l'Italia centrale e settentrionale, suscitando sempre vivo fervore e ovunque accolto come un benefattore. Particolarmente devoto al Santo Nome di Gesù, di cui faceva scolpire o dipingere su tavolette la sigla JHS (Jesus Hominum Salvator, Gesù salvatore degli uomini) divenuta comunissima, fu per questo più volte accusato di culto superstizioso ed eresia. Sempre riconosciuto innocente, fu ampiamente lodato dal papa Eugenio IV in una bolla del 1432. Nel suo Ordine fu il principale propagatore della riforma degli osservanti, di cui fu eletto (1438) vicario generale. Fu canonizzato da papa Niccolò V nel 1450. Oratore di grande vivacità ed efficacia, improvvisava le sue prediche adattandole al pubblico presente e arricchendole di aneddoti e di riferimenti alla società del tempo. Esse ci sono pervenute in buona parte, autografe o trascritte stenograficamente da uditori (Prediche volgari). Gli scritti più importanti sono tutti di prediche in lingua latina, eccettuando il Quaresimale fiorentino (1425). I Sermones, da lui editi per comodo dei predicatori, sono veri trattati di teologia soprattutto morale, in cui si sente l'influsso del suo maestro Umbertino da Casale. Degni di ricordo sono i quattro quaresimali: "De christiana religione" (1427, La religione cristiana), "De Evangelio aeterno sive de charitate" (1428, Del vangelo eterno ossia dell'amore), "Seraphim" (1422, I Serafini), "De pugna spirituali" (La lotta spirituale), e i trattati "De vita christiana" (La vita cristiana), "De beata Virgine" (1430-40, La beata Vergine), "De Spiritu Sancto" (1443, Lo Spirito santo).

Nota 2
Si dicono “leggi suntuarie”, le disposizioni contrarie al lusso, che arrivano a sanzionare la scomunica di chi non ne rispetta il contenuto. Le origini di tali disposizioni sono antichissime; i divieti originari previsti, partono da un concetto di uguaglianza e riguardano le manifestazioni del lusso quali: gioielli, stoffe, lunghezza degli strascichi. Già nel primo documento legislativo romano di cui si abbia notizia, le XII Tavole, si ha una limitazione per le vesti di lutto.
Ricordiamo Cesare che emanò una legge che vietava l’uso di manti di porpora, di perle ad eccezione di certe età e di rango, ma non per agli uomini.
In Italia nel duecento compaiono le prime leggi suntuarie, ad esempio in Sicilia la prima è opera di Carlo D’Angiò del 1272. All’inizio del 1300 è contemplato il lusso delle vesti e degli ornamenti femminili, ad eccezione di pettorali, monili e fregi che però non eccedano dieci libre di denari. Successive riforme della metà del 1330, si rivolgono tanto agli uomini che alle donne, con divieti che non riguardano solo il lusso di ori, argenti, perle e pietre preziose (del quale il limite è portato a una cifra pari a più del doppio della precedente), ma degli strascichi di vesti e mantelli e delle vesti a diversi colori.
C’è da considerare però, che gli estensori delle leggi suntuarie fanno parte delle classi privilegiate e, con il passare del tempo, finiranno per imporre divieti alla popolazione, riservando il lusso a sé stessi. Sono inoltre uomini e per questo in rari casi i divieti li interesseranno.
Nel 1506 a Perugia si stabilisce una sorta di stratificazione sociale sulla base degli sfoggi permessi o limitati o proibiti, lasciando libertà di lusso per “li gentilhomini legitimi et naturali che hanno dominio de doi castelli o più”, le donne “dé Cavalieri e dé Judici e dè
Medici fisici” possono portare bottoni dorati (per le altre vale la limitazione ai bottoni argentati e che non superano i 40 soldi di valore).
Altre usanze vengono comprese nel lusso per gli sprechi che causavano, così si impone l’uso di un solo panno per cappelli e vesti, l’uso di un particolare tessuto di seta, lo sciamito.
Fino al settecento si trovano leggi che vietano il lusso, l’ultima disposizione apparsa è del 1824 sotto forma di editto sul vestire a Roma. Per i disubbidienti le multe imposte erano a volte assai salate; in alcuni casi invece era garantita una certa permissività. Esempio è la città di Venezia che per fini politico economici, permette il lusso senza limitazione a dogi, alla dogaressa e alle persone della famiglia nonché al patriziato, in occasione di visite di sovrani stranieri, che si vogliono abbagliare con lo sfoggio di ricchezza di una delle città più importanti d’Italia.
Curiosa, e forse unica disposizione suntuaria che ha riscosso nel corso del tempo successo, è quella che impone che le gondole della città di Venezia siano di colore nero, “senza ornamenti né pittura alcuna”.

Nota 3
Genere letterario medievale a cavallo tra una barzelletta spinta ed una storiella. Mugnai e villani, ladri e mercanti, asinai e vedove, giovinetti e giullari si aggirano nel mondo fantastico eppure iperrealistico dei "Fabliaux", anonime narrazioni in versi dei secoli XII-XIV provenienti dalla Francia nordorientale. Questi racconti, dove coesistono alto e basso, nobiltà e miseria, passioni e avvenimenti, sono i precursori della novella e dunque alle origini della narrazione moderna.
Dalla fine del XII secolo fino a tutto il XIV secolo, si ha nelle regioni francesi una buona produzione di fabliaux. Sono brevi racconti in versi, caratterizzati da un linguaggio e contenuto procace e scurrile, miranti a suscitare il riso. Ce ne rimangono circa 150, di cui una cinquantina di autore sicuro, gli altri anonimi. Sono opera per lo più di trovieri di professione (tra essi Rutebeuf, e Huon le Roi), esperti nelle tecniche narrative codificate dalle scuole di retorica. Il divertimento è prodotto a volte da un gioco di parole, oppure da una situazione grottesca, dalla caratterizzazione comica dei personaggi, con arguta precisione. Si tratta di divertimenti per aristocratici, destinati al pubblico dei castelli in vena di sollazzo, di qui la presenza di un'aspra satira dei ceti inferiori; ma buoni anche per il sollazzo degli stessi ceti popolareschi, proprio per la presenza dello scurrile. Il genere diede un apporto realistico alla produzione letteraria francese (si pensi a Rabelais, Thé ophile de Viau, Scarron ecc.) con influssi indiretti, tramite traduzioni e riduzioni, su una parte della produzione italica del XII-XV secolo (Boccaccio, Bandello).

Nota 4
Paramento che il sacerdote indossa sopra il camice durante la messa; è di diverso colore secondo il tempo liturgico e le feste celebrate.

Nota 5
Drappo o stendardo di tessuto dipinto o ricamato

Nota 6
Francésco da Barberìno - (Barberino 1264-Firenze 1348) Soprannome di Filippo Neri di Ranuccio. Poeta, di professione notaio a Firenze, città alla cui vita politica partecipò attivamente. Della sua opera ci sono arrivati i Documenti d'amore (1314) e il Reggimento e costumi di donna (1320), un galateo femminile.

Nota 7
Christine de Pisan (1364-1430) poetessa francese di origini italiane. Scrisse molti romanzi, versi e novelle ma anche poemi per i quali divenne molto famosa. Molto colta e di carattere forte, Christine ha tentato di esprimere la dignità della donna. Le sue opere includono:
Le Livre des fais d'armes et de chevalerie, che fu tradotto e stampato in inglese da Caxton con il titolo di: The Book of Fayttes of Armes and of Chivalrye (1489; new ed. 1932).
Le Livre du duc des vrais amans (tradotto in inglese con il titolo di The Book of the Duke of True Lovers, 1908).
Sir Madhead



Bibliografia
Jack Goody: Famiglia e matrimonio in Europa. Milano 1984
Maria Consilia de Matteis (a cura di), Idee sulla donna nel Medioevo, Fonti ed aspetti giuridici, antropologici, religiosi sociali e letterari della condizione femminile, Patron editore, Bologna 1981.
Benedetto Vetere e Paolo Renzi (a cura di), Profili di donne, mito, immagine e realtà fra Medioevo e realtà contemporanea, Congedo editore, Galatina 1986.







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27/11/2009 15:48

Il sesso nel medioevo
Piacere e pregiudizio: il sesso nel Medioevo

a cura di Amedeo De Vincentiis


Il diavolo in corpo >>



Se l’idea di un Medioevo pudibondo e sessuofobico è oggi da sfatare, resta il fatto che proprio in quest’epoca la morale cristiana elabora un complesso sistema di valori, divieti e prescrizioni, volti a negare i piaceri della carne.



La via del desiderio >>



A fronte dei diktat della Chiesa, gli appetiti carnali, ormai riconosciuti e accettati, di fatto interessano un po’ tutti, dai teologi agli uomini di scienza. E si dibatte sul perché di tanto piacere nell’amplesso.




Il frutto proibito >>



Considerata dalla Chiesa contro natura, ma alla stregua di altre pratiche eterosessuali, fino all’XI secolo, per la legge, l’omosessualità non è ancora reato. Ma la repressione cruenta è dietro l’angolo.

_______________________

Sesso, Amore e Medioevo

Le Stufe:

La Chiesa li aveva fortemente condannati perché luoghi di perdizione e di pratiche spregevoli, che mortificavano lo spirito e degradavano l’animo umano. Erano semplicemente luoghi di ritrovo in cui si poteva fare sesso.

E si faceva sesso anche a pagamento: una sorta di bordello, un luogo in cui tutto era permesso, in cui le antenate delle rinascimentali cortigiane esercitavano il loro mestiere e vendevano il proprio corpo. Vi era un tempo in cui le saune fungevano da luoghi d’incontro e di sollazzi vari. E la pratica resiste ancora oggi, un po’ ovunque. I Romani si intrattenevano secondo i propri gusti nelle saune, spesso organizzate per accogliere gli avventori in luoghi appartati e al riparo di occhi indiscreti.

Secoli più tardi, nel medioevo, altrettanto succedeva nelle “stufe”, specie di saune del medioevo.
Luoghi in cui si svolgevano storie di sesso, di prostituzione, di adulterio e di varia umanità.

A differenza delle saune romane, nelle “stufe” medievali non erano permessi contatti tra persone dello stesso sesso: l’omosessualità era perseguitata come un orrendo crimine, poiché la Chiesa aveva deciso così.
E gli eretici che commettevano quest' "orrendo crimine" dinnanzi agli occhi di Dio, venivano bruciati pubblicamente (secoli XV-XVI) su pire di legno e finocchio (da qui l'appellativo dispregiativo in uso ancora oggi), per "addolcire" l'odore acre della carne bruciata.

Questi ameni luoghi d’incontro aprivano in ogni città e in ogni angolo d’Europa, offrendo occasione a chiunque di poter passare un po’ di tempo a prendersi cura del corpo, in ogni senso possibile.

I giovani davano sfogo alla loro irruente lussuria, spesso perdendo il controllo delle proprie azioni e violando giovani vergini che, chissà perché, frequentavano luoghi tanto pericolosi per la loro virtù.
Beh, forse erano lì proprio per non essere più etichettate come vergini… quale posto migliore?

Naturalmente questi luoghi erano anche un ottimo modo per praticare l’adulterio e tradire la consorte, ma a volte anche il consorte: spesso erano le donne che, pur non praticando l’antico mestiere, andavano in cerca di un piacere lascivo e momentaneo.

A Roma molte famiglie agiate avevano al piano terra della loro abitazione uno di questi “bagni” aperti al pubblico che, pagante, lì poteva finalmente rilassarsi, intrattenersi e… fornicare.

Quindi grossi interessi e giri di soldi dietro quest’esercizio, come del resto succede da sempre.


Il matrimonio come "affare redditizio"

Il matrimonio nel medioevo aveva un forte valore economico e politico più che sentimentale, i potenti ed i ricchi si sposavano più per interesse o per accordi politici che per amore o sentimento, anche perché la legge del tempo era studiata appositamente perché le unioni producessero scambi di potere e denaro.

Guglielmo il Maresciallo sposando Isabella di Clare, una ricca ereditiera, da militare nullatenente divenne uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra: un matrimonio sofferto ma fortemente voluto dalla di lui famiglia (egli rimase in attesa per ben 45 anni). I figli dei regnanti spesso erano già promessi sposi prima di essere concepiti: tutte le grandi famiglie europee del tempo erano imparentate (e per questo motivo lo sono ancora oggi).

Per il popolo però, il matrimonio aveva sempre quel senso di familiarità ed intimità che caratterizza l’unione d’amore di due persone: la solidarietà all’interno delle famiglie era assai forte, si condividevano con i familiari tutti i sentimenti, dall’amore all’odio.

Nella maggior parte dei casi non nasceva una vera e propria famiglia perché gli sposi andavano a vivere con i genitori (normalmente dello sposo, della sposa se lei non aveva fratelli), per condividere con loro la gestione familiare e, ovviamente, la terra.

C’erano delle regole ben precise da rispettare: le ragazze dovevano avere più di 12 anni e i ragazzi almeno 14, non dovevano essere parenti fino al settimo grado (anche se questa era una regola abbastanza elastica) e dovevano aver ricevuto i principali sacramenti della Chiesa.

In alcuni periodi dell’anno non era possibile unirsi in matrimonio: dalla prima domenica di avvento all’ottava dopo l’epifania, dal lunedì prima dell’ascensione all’ottava di Pentecoste e tra la settima e l’ottava domenica di Pasqua.

I signori e i nobili erano molto limitati nelle proprie scelte in quanto non decidevano in prima persona chi sposare; lo facevano per loro i genitori e i parenti.

Molto più liberi erano i borghesi e la gente del popolo che decidevano liberamente con chi sposarsi.

Ci si scambiava l’anello, che però non era l’unico simbolo di legame reciproco: durante la cerimonia si scambiavano guanti, cappelli, coltelli, a testimonianza che il legame non era solo sentimentale e romantico, ma conferiva ai due sposi un diritto sull’altro (e, ovviamente, anche sui beni materiali).

Ovviamente non si poteva divorziare, però si poteva dimostrare che il matrimonio non era "mai esistito" o per il fatto che la consanguineità era ignota al momento del matrimonio o se si dimostrava che uno dei due coniugi era incapace di avere figli.

Gli sposi si recavano in chiesa insieme ai rispettivi genitori e parenti, il prete appurava la loro identità e procedeva con la dichiarazione di fidanzamento: "... prometti col tuo giuramento di sposare...?".

Poi iniziava il periodo dei bandi, degli annunci pubblici dell’imminente matrimonio, soprattutto per scoprire eventuali impedimenti all’unione.

La cerimonia del matrimonio era simile a quella del fidanzamento ma, ovviamente più solenne: era celebrata di norma nell’atrio della chiesa, gli sposi vestivano di rosso e la sposa doveva avere i capelli lunghi sciolti e coperti da un velo (entrambi gli sposi poi erano coperti da un unico velo).

L’anello nuziale era scambiato e infilato al dito anulare, che "è il dito con la vena che porta direttamente al cuore".

Nei matrimoni dei nobili, soprattutto dei regnanti, l’anello portava anche delle scritte, o i nomi degli sposi, o alcune cose importanti per l’uno e per l’altra.

Nel momento dello scambio degli anelli c’era l’usanza tra gli invitati di prendersi a spintoni e a volte anche a schiaffoni, per non perdere la memoria di tale evento (nella maggior parte dei casi non esistevano documenti scritti). Veniva spezzata un’unica ostia e divisa tra i due sposi, che bevevano dallo stesso calice e poi accendevano un cero alla Santa Vergine.

Alla fine della cerimonia, dopo essere usciti dalla chiesa accompagnati per mano dal prete, gli sposi, insieme ai parenti, entravano nel cimitero e andavano a pregare i propri morti.

Sulla strada per casa parenti e amici tiravano grano agli sposi, auspicio di fertilità ed abbondanza (usanza di probabile derivazione pagana, rimasta in uso anche nelle cerimonie religiose di oggi). Poi cominciava la festa: canti, balli e ricche mangiate per giorni e giorni.

Al calar del sole della prima sera, il prete benediva la stanza e il letto dove i due giovani sposi avrebbero consumato il matrimonio, anche se molte volte succedeva che dormissero separati.

La cintura di castità

La cintura di castità appare per la prima volta nel XIV secolo in Italia. Utilizzata per proteggere dalle frequenti violenze, si rivelò uno strumento efficacissimo anche per coloro che temevano il tradimento delle “proprie” donne.

La cintura di castità femminile aveva una struttura di metallo con due piccole aperture (una sulla parte anteriore e una su quella posteriore, entrambe orlate di spunzoni acuminati...) che permettevano le normali funzioni fisiologiche ma che, ovviamente, impedivano la penetrazione di qualsiasi tipo, sia vaginale sia anale.

Durante il medioevo la prigionia e la costrizione della cintura di castità erano sinonimo di amore e fedeltà: quando i crociati partivano per le loro scorribande in Terra Santa, lasciavano mogli e compagne “sotto chiave”, e queste accettavano di buon grado la situazione poiché era un gesto di profonda devozione all’amore del proprio uomo.

Molte donne però riuscivano a procurarsi una copia della chiave, non solo per cedere ai piaceri della carne, ma anche per evitare fastidiose e a volte mortali infezioni.

Il fiorentino Francesco da Carrara regalò la cintura di castità alla moglie infedele (da un documento del 1405): oggi quella cintura è conservata al Palazzo dei Dogi a Venezia.

Lo scrittore medievale Goffredo di Vendôme addirittura scrisse una vera e propria invettiva contro le donne: “Maledetto sia questo sesso in cui non vi è né timore, né bontà, né amicizia e di cui bisogna diffidare più quando è amato di quando è odiato”.

E questo la dice lunga sulla concezione medievale della donna: gli uomini di chiesa erano i primi a definire le donne come streghe, puttane, esseri posseduti dal demonio. Inoltre la donna è pericolosa per sua natura, per la predisposizione al concepimento, e quindi deve rimanere lontana dalla santità dei luoghi benedetti.

Eleonora d'Aquitania, che fu moglie di Re Luigi VII di Francia, era l’esempio evidente della pericolosità della donna: donna intelligente e di forte carattere, dedita alla lussuria e ai piaceri del sesso più d’ogni altra donna, divenne emblema della lussuria e l’incarnazione del demonio.

Più tardi, verso la fine del XIX secolo, larga diffusione ebbe anche il modello da uomo, il cui scopo era principalmente quello di scoraggiare la masturbazione, pratica che, secondo molti, conduceva alla cecità e alla pazzia.

Oggi assistiamo al revival della cintura di castità, dalle pratiche sadomaso al bondage, ma anche alla carica simbolica che quest’oggetto porta con sé: amore e fedeltà, senso di possesso condiviso e rievocazione di un tempo in cui bastava poco per essere parte della persona amata.



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28/11/2009 21:44


Eccellente.

Per ora ho letto solo il primo pezzo, ma mi è parso ottimo.

Spero solo che tu non sia stato costretto a trascrivere tutto questo popò di roba a mano.

[SM=g2054228]

°°Argante D'Eon - Cane Grigio°° °°Ahroun Cliath dei Signori delle Ombre°°

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29/11/2009 00:56

nay, sir..ho fatto copy-paste, come ogni diligente studente delle scuole superiori italiane (e, ahimè, spesso anche del biennio universitario) [SM=g2054276]
Si possono comporre ottime tesine, senz'aver capito una sega di quello che s'è scritto, nevvero?! [SM=g2054226]



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12/04/2010 20:09

cioè,pare tutto interessante, loscritto di Eco poi..


però cala la palpebra :D
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13/04/2010 10:14

Uau, sembra piuttosto completa questa raccolta!!
Ne ho letto solo alcuni stralci ma di certo, con un po' più di pazienza, si rivelerà illuminante... fosse anche per cultura personale!! :)


°*°§§§§ Litea Aldwyn, Canto di Freyja, Cliath, Galliard delle Zanne d'Argento §§§§°*°
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