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Come viveva la gente comune durante il medioevo?

Ultimo Aggiornamento: 13/04/2010 10:14
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27/11/2009 15:27

In Taberna quando sumus...

La cultura alimentare nel medioevo e la tradizione narnese. Secondo lo storico Massimo Montanari, alla base di molti studi attorno alla cucina ed all’alimentazione nel Medioevo (così come per altre epoche storiche) si pone spesso un equivoco fondamentale.
La “vexata quaestio” non dovrebbe infatti prendere in esame il “cosa” si mangiasse all’epoca, bensì il “chi” mangiasse quella certa cosa. Il valore simbolico del cibo è da sempre parte integrante dell’azione stessa del mangiare e soprattutto nel periodo a cavallo tra Medioevo e Rinascimento esso assurge a vero e proprio elemento discriminante del Convivio.

I grandi ricettari medievali, a partire dal celebre “Liber de Coquina” (nato alla corte Angioina di Napoli, poi modificato secondo le esigenze locali), passando attraverso l’opera di Maestro Martino, così come i vari ricettari rinascimentali fino a quello di Bartolomeo Scappi, hanno spesso alla base le stesse “materie prime”, ciò che ne diversifica il valore sociale, permettendoci quindi di distinguere una cucina popolare da una nobile, è invece l’uso simbolico che di esse ne fa il cuoco.

La permanenza di sapori e gusti che passano dalle cucine del popolo a quelle di corte, è una caratteristica fondamentale dell’alimentazione medievale: prodotti umili come le verdure, e specificatamente i legumi (vero e proprio leit motiv delle pietanze popolari) nelle loro preparazioni tipiche, come le zuppe e le farinate, sono presenti sia nelle ricette contadine che in quelle dei nobili.

Nel primo caso però esse rappresentano spesso l’unica pietanza disponibile, a mo’ di succedaneo della carne (inaccessibile ai più poveri) e persino del pane, soprattutto nei periodi di grande carestia, in cui ogni granaglia veniva frantumata e trasformata in farina per farne pane.

Nei ricettari dei Nobili le stesse pietanze vengono nobilitate appunto perché accostate a cibi alti e costosi: ecco quindi che la classica “fava infranta” (piatto a base di fave, pane ed olio) della tradizione contadina si ritrova adagiata accanto all’arrosto di capriolo, fungendo da abbellimento del piatto principale.

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Il prodotto umile viene quindi nobilitato a tavola, ma la sua natura nutrizionale resta la stessa per ogni ceto sociale. Ecco quindi l’importanza della domanda iniziale: chi mangia detta il simbolo insieme all’uso; l’aglio (e la salsa che ne prende il nome, l’agliata) resta cibo “rusticano” ma diventa artificiosamente civile quando viene posto accanto o sopra “arrosto di pavaro”.

Nel momento in cui l’aglio si conficca nel papero arrosto (di nuovo con tutta la simbologia del cibo, in questo caso non si può non ricordare il povero cigno che nei “Carmina Burana” viene appunto arrostito a mo’ di paparo…) esso si nobilita.

Secondo tratto di nobilitazione del cibo contadino è nell’uso delle spezie: esse rappresentano la ricchezza per eccellenza, in quanto rare e molto costose, l’uso smodato di spezie a tavola è sintomatico della ricchezza del Signore. Chi ha molti soldi pretende molte spezie, anche a rischio si rendere immangiabile il cibo così proposto; l’esagerazione nell’uso delle spezie (cannella, pepe, zafferano, cinnamomo, cardamomo ecc..) è una caratteristica dei Nobili rinascimentali.

All’interno dello già citato Liber de Coquina sono presenti alcune ricette in cui le spezie vengono indicate in quantità spropositate rispetto alla vivanda (e ciò renderebbe del tutto immangiabile qualsiasi cibo), proprio per esaltarne l’esclusività, la destinazione nobile, ad esclusione del popolo.

Una volta chiarito quindi l’equivoco di fondo, possiamo finalmente prestare la nostra attenzione al “cosa si mangia” nel Medioevo: alcune vivande sono – per così dire – trasversali, ovvero appaiono sia nelle cucine del popolo che in quelle dei sovrani, tra queste possiamo ribadire l’importanza dei legumi e dei cereali, così come delle bevande (il vino soprattutto), mentre dobbiamo iniziare a fare delle distinzioni per ciò che riguarda l’uso ed il consumo della carne.

La carne riveste un ruolo sociale e simbolico assoluto, pari forse solo al ruolo del pane (che però ha una valenza anche religiosa, pensiamo solo all’eucaristia cristiana): essa è presente prevalentemente sulle tavole dei signori, mentre ai villani è interdetta, o almeno limitata alle parti meno nobili.

La letteratura ci offre spunti molto interessanti a tal proposito, basti pensare al Decamerone di Boccaccio, o al mito di Cuccagna, in cui i polli arrosto e le anatre (ancora!) allo spiedo sono elementi essenziali dell’onirico contadino. Per ciò che riguarda le parti della carne in questione, tutti hanno ben presente l’immagine tradizionale del re che banchetta a base di coscio d’agnello, mentre il povero Bertoldo è costretto a cibarsi delle interiora (il cosiddetto “quinto quarto” dell’animale) oppure – se fortunato – dell’interno dell’oca ripiena.

In ogni caso si tratta di una vera e propria esclusione del popolo dall’esteriorità e vigoria delle parti nobili degli animali, così come ci è nota l’usanza (anche grazie alle leggende di Robin Hood) storicamente attestata, soprattutto in Inghilterra, di vietare l’ingresso e la caccia (nobile sport) al popolo all’interno dei parchi reali per cacciare selvaggina.

Da tutto ciò possiamo ben comprendere come la carne rappresentasse un vero e proprio spartiacque sociale nel Medioevo, e contemporaneamente accresce anche l’importanza di un animale, il meno nobile, per la gastronomia dell’epoca, ovvero il maiale.

Alcuni storici pongono l’attenzione su una sorta di “linea gotica” alimentare che sembra attraversare l’Italia Medievale: nella cosiddetta “Longobardia” e parzialmente nel Ducato di Spoleto si tende la cosiddetta linea della “birra–maiale” (nell’accezione del lardo), mentre a sud, nella “Romania” e nelle due Sicilie parliamo di linea “vino–olio”.

Tale divisione non può certamente essere considerata tassativa, eppure c’è del vero: l’importanza del maiale in tutte le sue forme, e della sua carne anche come base di condimenti e di zuppe è indubbia anche in Umbria.

Il maiale quindi come carne popolare, ed il grasso di maiale utilizzato in ogni tipo di ricetta, anche accanto alle spezie, allo scopo di favorire la conservazione delle carni vendute al mercato. Il mercato narnese nel Medioevo è d’altronde l’obiettivo prediletto dei controlli antisofisticazione, e da ciò che possiamo dedurre dagli Statuti, queste non dovevano essere rare.

Sembra piuttosto consueto l’uso di soffiare aria nelle carcasse degli animali esposti per renderli più appetibili agli occhi degli acquirenti, così come alcune spezie che venivano usate in sovrabbondanza per eliminare il fetore di carni vecchie, soprattutto d’estate. Tutti espedienti che sembra fossero all’ordine del giorno nella Narni medievale, e che – al pari delle truffe nelle taverne – rappresentano una delle maggiori preoccupazioni del Vicario.

Il vino delle taverne

Già le taverne: cosa si beve nel Medioevo? E come nascono le moderne taverne della Corsa all’Anello? La questione è duplice: negli Statuti medievali si disciplina con estrema attenzione la somministrazione del vino, insieme alle pene per chi ne adultera la composizione.

All’interno della taverna, presso il banco della mescita, deve essere ben visibile una sorta di “boccale tipo” legato ad una catena e sigillato: solo quella dovrà essere la misura dei bicchieri in vendita, e chi contravvenisse a ciò dovrà pagare molti soldi cortonesi.

Simile attenzione è posta poi anche alla composizione della bevanda stessa: si proibisce l’aggiunta di spezie e zuccheri che possano alterarne il sapore o la gradazione alcolica.
Interessante è inoltre il capitolo che regola la vendita del vino novello: chiunque ne voglia vendere in città, nel periodo indicato (Novembre – Dicembre) dovrà porre all’esterno della propria Locanda un rametto d’ulivo o d’altra pianta, e ciò starà ad indicare la vendita del nuovo vino.

Curioso è il legame onomastico tra questo uso medievale ed il nome attribuito popolarmente al classico bicchiere di vino (ancora oggi), ovvero la “foglietta” proprio nella inconsapevole memoria di tale usanza.

Cosa si serve nelle taverne medievali? Vino soprattutto, ma anche "claereria", ovvero vino speziato, più forte, distribuito anche dagli Speziali della città, e qui presente.
Il cibo è popolare: dalle paniccie (focacce di cereali o legumi) alle torte, prodotte ancora oggi in Umbria con i cosiddetti “testi” allo stesso modo.

Le pietanze da Taverna devono garantire un buon commercio del vino, e quindi devono stimolare la sete: la minestra di fagioli secchi ad esempio, molto salata, detta anche “Macco” (dalla medesima etimologia "maccare", "ammaccare" ovvero ridurre a farina e impastare, nasceranno poi i maccheroni - gnocchi, nel significato più antico del termine, una vivanda cara alla cucina contadina), e lo scapece, ovvero pesce fritto e poi marinato in sale ed aceto per una lunga conservazione. Proprio questo cibo viene esplicitamente definito “schibezia a tavernaio” in un ricettario del XIV secolo.

E’ interessante notare, inoltre, come le taverne medievali siano luoghi in cui non valgono le differenze di ceto sociale, differentemente dal convivio domestico (e soprattutto quello dei nobili) in cui invece la distanza dal Capotavola diventa quasi metafora di grado vassallatico, per cui gli ospiti più vicini al Signore lo sono anche dal punto di vista sociale, mentre la distanza che aumenta al desco simboleggia anche la distanza sociale. Nelle taverne vigono invece i tavoli rotondi, dove (come ci spiega bene il mito Arturiano) tutti gli ospiti hanno pari grado: ciò ci è testimoniato sia dalle descrizioni letterarie che da qualche immagine dell’epoca.

Le Hostarie moderne (a proposito, il nome si rifà all’uso di avere tavernieri di origine germanica nel tardo medioevo anche in Italia, per affinità con la parola Host, ospitante), nate negli anni ’70 nell’ambito della festa narnese, hanno proposto sin dall’inizio una scelta di piatti tradizionali, riallacciandosi alla cultura contadina di inizio secolo, conciliando memoria locale e gusti popolari.

Nei primi anni le Hostarie narnesi hanno - per così dire – ricreato un immaginario gastronomico medievale rileggendo ricette popolari dell’era pre-industriale, senza badare troppo alla filologia alimentare, bensì puntando l’attenzione ai gusti forti ed ai profumi d’arrosto. Le stesse Taverne si sono poi evolute nel tempo, ed oggi accanto alla tradizione popolare della cucina umbra si affianca una ricerca storica più filologica, che vuole proporre i veri gusti medievali.

Le seconde taverne della città: Le Stranezze a Mezule, la Taverna del Pozzo ed il Cantinone a Fraporta, la Taverna degli Anelli a S.Maria possono proporre finalmente un vero affresco di sapori medievali a chiunque sia curioso di sperimentare un viaggio nel tempo attraverso tutti i sensi, in un’orgia di colori e sapori, seguendo i dettami di Maestro Martino.

Breve Bibliografia di riferimento

- Camporesi, P. Alimentazione, folclore società. Parma, 1983
- Hilario, Franco Jr. Nel paese di Cuccagna. Ed. Città Nuovam Roma 2001
- Duby, G. Guerrieri e contadini nel Medioevo. Ed. Laterza, Bari-Roma 1975
- Peyer, Hans C. Viaggiare nel Medioevo. Ed. Laterza, Bari 1991
- Montanari, M. Alimentazione e cultura nel Medioevo. Ed. Laterza, Roma-Bari 1988
- Montanari, M. Convivio. Ed. Laterza Roma-Bari 1989
- Montanari, M. Contadini e città tra Langobardia e Romania. Ed. Laterza, Roma-Bari 1988

(a cura di F.Ronci, cff: www.medioevo.com)



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